Esiste un futuro per i giovani italiani?

mercoledì 25 maggio 2011

"Poi vedo". Ovvero, rinviare

Il punto di partenza di questa inchiesta, condotta alla fine del 2007, dunque prima che scoppiasse la crisi economica internazionale che stiamo vivendo e che senza dubbio aggrava la situazione, sta nella constatazione che feci a me stessa dopo aver saputo di una giovane che assumeva un lavoro del tutto avulso dalle sue competenze: un’altra laureata che diventa commessa!
Fatti del genere si verificavano frequentemente, nella cerchia delle mie conoscenze e non solo. Di solito la si definiva un’occupazione provvisoria, ma intanto pareva che nel mio territorio i giovani che svolgevano un lavoro coerente con gli studi intrapresi fossero mosche bianche. Quali i punti deboli del sistema? La scuola? Un orientamento scadente nei nodi di passaggio tra un livello e l’altro, tra un ciclo d’istruzione e l’altro? Lo scarto tra la secondaria e l’università e tra questa e il mercato del lavoro? La mancanza di programmazione a livello di formazione? Gli scarsi investimenti in ricerca, sviluppo e capitale umano? I contratti sfavorevoli, i cosiddetti atipici? La concorrenza internazionale? La carenza di posti di lavoro qualificati, visto che si trattava di laureati? C’entravano qualcosa le aspettative mal riposte dei genitori verso i figli, in molti casi il figlio unico?
Non era semplice rispondere.
Il confronto con aree emergenti quali la Cina e l’India risultava particolarmente stridente. Là  senza dubbio c’erano meno laureati rispetto al nostro paese e dunque le due realtà non potevano essere raffrontate alla pari, ma colpiva il divario rovesciato tra “noi” e loro: grande dinamismo economico da un lato, il loro, e mancanza di prospettiva dall’altro, il nostro. A diciassette anni là erano pronti a inserirsi nel mondo del lavoro - diciassettenni fra l’altro straordinariamente numerosi! – a trentacinque qua ci si guardava ancora intorno. Per quei milioni di ragazzi e ragazze i percorsi formativi, scolastici e professionali erano più semplici e mirati: li sosteneva la necessità primaria di rendersi indipendenti. Paradossalmente i nostri giovani, con famiglie più solide sul piano economico e maggiori opportunità formative, erano al palo.
Dunque, paese vecchio e incapace di progettare il futuro, questa l’idea che mi ero fatta dell’Italia. Paese in decadenza, incapace di far fronte ai cambiamenti che si rendono necessari in una logica di sviluppo integrato e sostenibile, l’unica capace di reggere la sfida del futuro.
Il discorso poteva portarmi lontano e fuori dalle mie competenze – storico-filosofiche e non economiche o sociologiche – per cui andava delimitato il campo. Era già molto se riuscivo a verificare come veniva vissuta dai diretti interessati quella discrasia tra percorso formativo e sbocco professionale che andavo riscontrando in molte storie personali. I giovani magari erano contenti di mettersi alla prova, di dimostrare disponibilità al cambiamento, adattabilità, iniziativa, fantasia e coraggio, poteva essere così. Io però, da vecchia insegnante, vedevo anche uno spreco di risorse, uno sperpero “da ricchi” in questo continuo rimescolare le carte. Dipendenza dai genitori, perdita di anni e di energie, precarietà, rinvio di scelte lavorative e di vita quali il matrimonio e i figli: un pericoloso declino. Mi tornavano in mente altre epoche di decadenza, quella dell’Impero romano ad esempio, e la fine ingloriosa di certe dinastie nobiliari.
L’idea delle interviste è nata così. Volevo incontrare i diretti interessati, scoprire come percepivano la mancanza di linearità del loro curriculum formativo o professionale e quali circostanze avevano condizionato la scelta di abbandonare la strada intrapresa inizialmente. Volevo sapere se erano soddisfatti di ciò che facevano e cosa si aspettavano dal futuro. Volevo verificare se la “durezza” oggettiva del mondo – quel mondo adulto che si ostina a ignorarli, che prolunga la vita lavorativa degli occupati tenendo fuori le nuove generazioni - era stata l’ostacolo determinante. Mi sono confrontata con fonti autorevoli quali Almalaurea e Censis, in particolare il Convegno “Dall’università al lavoro in Italia e in Europa”, risultati della IX indagine di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei giovani, Bologna, 2-3 marzo 2007. Infine ho raccolto dati sulla situazione occupazionale nella mia provincia - Rimini - all’epoca: su 100 nuove assunzioni, l’industria locale chiedeva solo 6 laureati; la richiesta di diplomati saliva dal 27 al 38% delle nuove assunzioni; un lavoro a tempo indeterminato nelle imprese locali era previsto solo per uno su quattro; aumentavano le tipologie di lavoro precario: dal 2001 al 2005 i parasubordinati passavano da 11 a 29 mila.

Lidia Mali

Di seguito, un’idea dell’intervista (stralcio):
-       Competenze acquisite che non metti a frutto nel lavoro attuale, che metti a frutto o di cui senti la mancanza.
-       Progetti per il futuro. Rammarichi
-       Quando e come hai deciso di cambiare strada.

domenica 15 maggio 2011

Che cosa fai da grande?

Intro. Qualche pensiero sul “lavoro”…
Passeggiando per le strade del centro della propria città, può capitare che lo sguardo cada sulle lastre di marmo appese agli edifici che fanno angolo tra una via e l’altra, che riportano il nome delle vie. Via dei calzolai, Via degli artigiani, Via delle botteghe, Via dei falegnami, Via dei cestari, Via degli artisti, Via dei barbieri… e subito ci si immaginano tempi passati in cui la via era piena di botteghe di scarpe, di segherie, e via di questo passo. Le persone che lavorano in queste vie sono “il calzolaio”, “il barbiere”… sembra quasi che il loro ruolo sia parte di loro, che siano nati per fare quello, che non abbiano quasi un nome, ma che il lavoro che fanno sia la loro identità. Tante volte anche nelle nostre città o paesi, certe persone sono identificate col mestiere. “Chi è quello?” “È il medico”, oppure, “è il maestro delle scuole elementari”… Accanto ad altre cose – come la famiglia, tutte le altre relazioni, la storia personale, ecc. – il lavoro è uno di quegli elementi che costituiscono le persone. Il lavoro fa essere uomini, dà un ruolo nella società e crea le personalità.
Lavoro per realizzarmi
Il lavoro occupa uno spazio molto importante nella vita delle persone, sia in termini di tempo speso per esso, sia in termini di impegno fisico e mentale richiesto. Di fronte ad un così grande impegno, viene spontaneo chiedersi: “Ma in fondo, perché si lavora? A cosa serve lavorare?” La risposta più immediata che può venire è che il lavoro serve per guadagnarsi da vivere, è una necessità che tutti prima o poi devono riconoscere. In effetti questa è la risposta più giusta e più vera che si può dare. Ma il lavoro e la professione, non sono solo una attività per fare soldi, “lavorare” non significa solo questo. Se così fosse non si spiegherebbe come mai alcune persone preferiscano rinunciare a mestieri più remunerativi, nei quali si guadagna di più, per altri meno pagati e magari con meno prospettive di crescita di guadagno, o perché altri lascino il loro lavoro per investire i propri soldi, il proprio tempo e le proprie energie per portare avanti un loro “sogno lavorativo”.
Il lavoro è anche altro, dunque. Lavorare non significa soltanto trasformare “la materia” in qualcosa di utile per l’uomo, o eseguire una operazione che provoca un effetto, bensì significa anche “trasformare” se stessi e “operare” su se stessi. Praticando una attività – di qualsiasi genere questa sia, dal ciabattino al professore universitario di storia, dall’ingegnere al barista – si è obbligati a utilizzare quelle che sono le proprie energie, le proprie capacità, il proprio corpo e la propria mente, “ci si applica”. Il lavoro è un “fare” che richiede un impegno ed un investimento personale nel quale ci si mette in gioco, si mettono in gioco le proprie caratteristiche, le proprie capacità, si mette a frutto e si applica il proprio sapere, ciò che si è imparato alle scuole superiori ed all’università, ma anche tutto ciò che si è imparato fuori da questi ambienti. Inoltre lavorando si continua ad imparare, sorgono nuove domande, crescono nuovi interessi legati all’attività in corso, e si ha la possibilità di studiare capire ed apprendere nuove cose.
 “Lavorare stanca”. È vero, il lavoro di sicuro non è una attività riposante, bensì implica un dispendio di energie, fisiche e/o mentali. Ma allora vuol dire che l’ideale sarebbe non lavorare? Forse che chi non lavora (non perché non ne ha le possibilità, ma perché ha le possibilità economiche e sociali per non farlo) è più “fortunato”? No! Infatti come dicevamo prima, il lavoro è l’attività che ci permette di realizzare noi stessi. Certo, come dice anche la Dottrina Sociale della Chiesa, pur non essendo l’unica attività che realizza l’essere umano, tuttavia è una delle principali. Un filosofo dell’ottocento, G.W.F. Hegel, parlando del conflitto tra “servo e padrone”, dice che soltanto apparentemente il padrone – che vive grazie al lavoro del servo, e quindi non lavora -  è avvantaggiato, in quanto, oltre a non essere autosufficiente, il padrone rinuncia anche a “costruire se stesso”, cosa che invece il servo fa ogni giorno “dando forma alla materia”, cioè lavorando.
Il lavoro è quindi un elemento costitutivo dell’uomo, si lavora non solo per guadagnare soldi, non solo per “necessità”, non per sopravvivere, bensì per vivere, perché il lavoro permette di mettere in gioco ciò che siamo e di costruire ciò che vogliamo essere.
Lavoro per e con gli altri
L’articolo 1 della Costituzione dice: “L’Italia è una repubblica democratica FONDATA SUL LAVORO”. Il lavoro è quindi la base, il fondamento della società civile. Questo articolo ci fa pensare ad una cosa importante. Non siamo soli a questo mondo! La costituzione è la carta che regola la convivenza dei cittadini italiani, e proprio questa carta nel primo articolo dice che il fondamento della repubblica è il lavoro. Questo significa che il lavoro è attività fondamentale per la costruzione della società. Riprendendo il discorso fatto prima, il lavoro è una attività che permette di costruire non solo oggetti o prodotti esterni, bensì anche noi stessi. E questo “noi” è da intendere appunto come un insieme di persone. Lavorare significa appunto ricoprire un ruolo nella società, avere un compito ben preciso.
La stessa Costituzione continua a trattare del lavoro all’articolo 4, che dice:
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Il lavoro è dunque da una parte un diritto inviolabile, ed è compito della Repubblica garantirlo per ogni cittadino; dall’altra è un dovere del cittadino stesso, di concorrere, ognuno secondo i propri talenti e capacità, alla costruzione della società. Per capire meglio cosa la Costituzione intende dire quando afferma che il lavoro è sia un diritto che un dovere, pensiamo al problema della disoccupazione: questa è sempre una “patologia”, qualcosa di negativo, perché se volontaria va contro ad un dovere, se involontaria, la Repubblica ha il compito di eliminarla.
La Costituzione si occupa poi del lavoro negli articoli dal 35 al 40. Questi sostanzialmente difendono i diritti dei lavoratori, per quanto riguarda la retribuzione, le ore di lavoro, la rappresentanza sindacale, la tutela dei soggetti inabili.
Nella nostra Carta costituzionale non ci sono dunque soltanto norme specifiche, ma si trova anche una idea precisa del lavoro: è un bene da tutelare sia perché è la massima realizzazione dell’individuo in quanto tale, sia perché è lo strumento col quale ognuno può concorrere, coi suoi mezzi, alla costruzione del bene comune.
È quindi un “servizio” agli altri: con le nostre competenze e la nostra attività lavorativa possiamo migliorare, trasmettere, progettare, custodire, costruire, inventare a vantaggio delle persone e del progresso della società. Come diceva don Lorenzo Milani, “il sapere serve solo per darlo”. Se questo è vero, bisogna anche trovare una forma per mettere in pratica le conoscenze apprese a scuola, ed è proprio grazie al lavoro che possiamo rendere concreta questa grande massima. Lavorare è un modo concreto con cui prendersi anche cura degli altri. Il lavoro non è orientato soltanto al guadagno, e nemmeno solo alla realizzazione personale. E questo vale per ogni tipo di lavoro. Non solo il medico “aiuta” gli altri, non solo l’”insegnante” fa un mestiere utile per il bene di tutti.
Ma gli altri non si incontrano solo come “destinatari” del lavoro. Gli altri si incontrano anche “sul” lavoro. Il lavoro avviene in comunità, si lavora sempre insieme ad altri, si lavora “con” altri. Questo è un elemento importante da sottolineare del lavoro, tant’è che senza questa componente del lavoro (quella del rapporto coi colleghi, coi clienti, con “gli altri” insomma) si fraintende, non si capisce cosa sia “lavorare”.  Non si lavora da soli, insomma, ma in comunità. Lavorare “con gli altri” porta con sé tutte le dinamiche tipiche delle relazioni.
Lavoro scelto o lavoro obbligato
Dopo aver delineato il lavoro come necessario per vivere, come mezzo di realizzazione personale e come strumento di costruzione del bene comune, nel momento della scelta ci troviamo davanti ad un muro insormontabile, che non avevamo previsto, e di fronte al quale tutti i discorsi fatti prima sembrano frantumarsi e rivelarsi inconsistenti. Il muro è quello della difficoltà di trovare un lavoro, e del limite delle opzioni di lavoro che ci sono poste davanti al momento della scelta. Sembra quasi che sia impossibile che il lavoro venga scelto, piuttosto bisogna “cercare” il lavoro e firmare, senza pensarci due volte, il primo contratto che viene offerto.
Posto che il lavoro è un diritto, e che quindi l’assenza di opportunità lavorative è un male che lo Stato deve impegnarsi a debellare, e che la situazione di crisi economica dei nostri giorni, non rende più semplici le cose, non bisogna scoraggiarsi! Scegliere il lavoro è una operazione dinamica. Significa coltivare un sogno, e si sa che i sogni non si realizzano facilmente. Anche se il primo lavoro non corrisponde alle proprie intenzioni, è importante non perdere, e non dimenticare i propri desideri, i propri interessi. Questo non significa accontentarsi di ciò che capita e rimandare “il lavoro dei sogni” in un futuro forse inesistente.
“Creazione” o “esecuzione”
Il lavoro non va soltanto “cercato”, ma va anche in un certo senso “inventato”. Non è questione solo di “esecuzione”; ma anche di “creazione”. Proprio perché attraverso l’attività lavorativa si ha la possibilità di mettere in gioco se stessi, proprio perché è l’occasione di costruire noi stessi, lavorare è (o dovrebbe essere) una attività che viene da noi stessi, di cui siamo gli autori, di cui “rivendichiamo la paternità”. Ovviamente questo non significa che i lavori più dignitosi sono solo quelli “in proprio” o quelli “autonomi”, bensì che è importante che in qualsiasi lavoro non ci si limiti ad eseguire un compito, come fossimo delle macchine. Lavorare significa mettere in gioco la propria dinamicità, le proprie idee e la propria passione. Non esiste lavoro più dignitoso di un altro, per il quale valga maggiormente la pena faticare. Il lavoro ha una dignità che va oltre a ciò che produce, in quanto serve a formare la persona stessa.
Stefano Veluti

sabato 7 maggio 2011

Certe volte mi sveglio

Certe volte mi sveglio ma ho paura di aprire gli occhi. Non ho più sonno. Temo di aver fatto tardi. Ma temo anche di essermi svegliato troppo prima. Spero che la sveglia suoni il prima possibile per indicarmi che non ho fatto né tardi né presto. Ma ciò non accade per un tempo che reputo troppo lungo. Allora comincio piano piano ad aprire gli occhi per capire quanta luce filtra dalla finestra. Non ne filtra. E’ ancora buio. Bene ciò vuol dire che non ho fatto troppo tardi. Ma non so esattamente che ore sono. Allora apro gli occhi sempre un po di più, prendo coraggio e guardo l’ora: sono le 4:15. Oggi è andata bene. Avevo puntato la sveglia alle 4:40. Ho sprecato solo 25 minuti di sonno. Lascio mia moglie dormire. Mi alzo senza fare rumore. D’altronde sarebbe una cattiveria svegliarla a quest’ora di sabato mattina. Vado in bagno senza accendere la luce. Non voglio svegliare i bambini. Ormai sono 10 anni che faccio questa vita. So fare tutto anche al buio. Mi preparo esco sono le 5:10. 40 minuti per arrivare al lavoro. L’unica cosa bella dei turni è che esci a degli orari in cui non trovi traffico. Arrivo al lavoro. Guardo i colleghi. Gli occhi sono aperti. Ma vedono solo il minimo indispensabile. Tralasciano il superfluo. Siamo tutti così. Sembriamo dei robot. Meno male che il lavoro che ci fanno fare non richiede attenzione. E’ la classica catena di montaggio. La pensava così anche il Pini. Lo diceva sempre. Io la sera esco. Vengo al lavoro il mattino direttamente dalla discoteca. Be forse quella sera aveva esagerato. Il mattino dopo è finito sotto la pressa. Sono contento di essere restato a casa quel mattino. Non penso che avrei avuto le forze per provare dolore. Sono le due. Siamo tutti in fila davanti alla timbratrice. Sembriamo tanti Fantozzi ancora più tristi. Aspettiamo il nostro turno per timbrare e tornare a casa. Arrivo a casa. I bambini ridono, urlano mi abbracciano. Io faccio le cose per inerzia. Gli urlo di non fare casino. Mi pento di averli strillati. Ho sonno. Voglio andare a dormire. Alle 22:00 mi aspetta il turno di notte. I bambini mi guardano perplessi. Il piccolo mi chiede perché vado a dormire il pomeriggio. Non so cosa rispondergli. Mia moglie mi salva. Gli dice di lasciare stare papà. Gli promette di portarli fuori.
Io vado a dormire.
Certe volte mi sveglio ma ho paura di aprire gli occhi. Non ho più sonno. Temo di aver fatto tardi. Ma temo anche di essermi svegliato troppo prima. Spero che la sveglia suoni il prima possibile per indicarmi che non ho fatto ne tardi ne presto. Ma ciò non accade per un tempo che reputo troppo lungo. Allora comincio piano piano ad aprire gli occhi per capire quanta luce filtra dalla finestra. Ne filtra un po’. Bene ciò vuol dire che non ho fatto troppo tardi. Ma non so esattamente che ore sono. Allora apro gli occhi sempre un po' di più, prendo coraggio e guardo l’ora: sono le 20:15. Oggi è andata bene. Avevo puntato la sveglia alle 20:30. Ho perso 15 minuti di sonno. Vado in cucina. Mangio con la famiglia. Mi sforzo di mangiare. Non ho fame appena sveglio. Ma una volta ogni tanto fa piacere mangiare tutti insieme. Non faccio in tempo a prendere il caffè. Sono le 21:10. Devo uscire. Arrivo al lavoro. Guardo i colleghi. Gli occhi sono aperti. Ma vedono solo il minimo indispensabile. Timbriamo. Ci andiamo a cambiare. Prendiamo posto in fabbrica. Cominciamo a contare il tempo che ci manca prima di uscire. Sono le sei. Siamo tutti in fila davanti alla timbratrice. Sembriamo tanti Fantozzi sempre più tristi. Mi metto in macchina. Comincia ad albeggiare. Arrivo a casa. Mentre mi preparo per andare a dormire. I bambini si svegliano non voglio guardarli negli occhi.
Certe volte mi sveglio ma non ho paura di aprire gli occhi. Non ho più sonno. Non temo di aver fatto tardi. Non temo neanche di essermi svegliato troppo prima. Non spero che la sveglia suoni il prima possibile per indicarmi che non ho fatto né tardi né presto. Guardo la sveglia. Sono le 10:00. Oggi sono di riposo. Mi alzo. Accendo le luci. Non mi preoccupo di far rumore. In casa non c’è nessuno. Mia moglie è al lavoro. I bambini sono a scuola. Io sono di riposo. Penso che avrei preferito andare al lavoro. Mi affaccio in balcone. Il portiere mi guarda. Non mi saluta. Sono 10 anni che vivo in questa palazzina a Milano. Le persone ancora non mi salutano. Non si salutano neanche fra di loro. Il portiere starà pensando ancora una volta che mi hanno licenziato. E’comprensibile. E martedì e sono a casa. Guardo il cielo. E’ grigio. Fra poco pioverà. Sabato e domenica che ero al lavoro c’era il sole. Dio non fa i turni.
Certe volte non vorrei svegliarmi. Vorrei essere svegliato dall’odore del caffè che pervade l’aria. Vorrei essere svegliato dalla mia giovane cameriera che mi accarezza la spalla dicendomi:
Direttore, è tardi oggi deve andare in fabbrica. Ed io vorrei girarmi dall’altra parte con il sorriso sulla bocca e rispondergli. Non ti preoccupare, Io non ho il cartellino da timbrare come i miei dipendenti.
Certe volte mi sveglio ma ho paura di aprire gli occhi. Non ho più sonno. Temo di aver fatto tardi. Ma temo anche di essermi svegliato troppo prima. Spero che la sveglia suoni il prima possibile per indicarmi che non ho fatto né tardi né presto. Ma ciò non accade per un tempo che reputo troppo lungo. Allora comincio piano piano ad aprire gli occhi per capire quanta luce filtra dalla finestra. Non ne filtra. E’ ancora buio. Bene ciò vuol dire che non ho fatto troppo tardi. Ma non so esattamente che ore sono. Allora apro gli occhi sempre un po' di più, prendo coraggio e guardo l’ora: sono le 4:15. Oggi è andata bene. Avevo puntato la sveglia alle 4:40. Ho sprecato solo 25 minuti di sonno. Lascio mia moglie dormire. Mi alzo senza fare rumore. D’altronde sarebbe una cattiveria svegliarla a quest’ora di sabato mattina. Vado in bagno senza accendere la luce. Non voglio svegliare i bambini. Ormai sono 10 anni che faccio questa vita. So fare tutto anche al buio. Mi preparo esco sono le 5:10. 40 minuti per arrivare al lavoro. L’unica cosa bella dei turni è che esci a degli orari in cui non trovi traffico. Arrivo al lavoro. Guardo i colleghi. Gli occhi sono aperti. Ma vedono solo il minimo indispensabile. Tralasciano il superfluo. Siamo tutti così. Sembriamo dei robot. Meno male che il lavoro che ci fanno fare non richiede attenzione. E’ la classica catena di montaggio. La pensava così anche il Pini. Lo diceva sempre. Io la sera esco. Vengo al lavoro il mattino direttamente dalla discoteca. Be forse quella sera aveva esagerato. Il mattino dopo è finito sotto la pressa. Sono contento di essere restato a casa quel mattino. Non penso che avrei avuto le forze per provare dolore. Sono le due. Siamo tutti in fila davanti alla timbratrice. Sembriamo tanti Fantozzi ancora più tristi. Aspettiamo il nostro turno per timbrare e tornare a casa. Arrivo a casa. I bambini ridono, urlano mi abbracciano. Io faccio le cose per inerzia. Gli urlo di non fare casino. Mi pento di averli strillati. Ho sonno. Voglio andare a dormire. Alle 22:00 mi aspetta il turno di notte. I bambini mi guardano perplessi. Il piccolo mi chiede perché vado a dormire il pomeriggio. Non so cosa rispondergli. Mia moglie mi salva. Gli dice di lasciare stare papà. Gli promette di portarli fuori.
Io vado a dormire.
Certe volte mi sveglio ma ho paura di aprire gli occhi. Non ho più sonno. Temo di aver fatto tardi. Ma temo anche di essermi svegliato troppo prima. Spero che la sveglia suoni il prima possibile per indicarmi che non ho fatto né tardi né presto. Ma ciò non accade per un tempo che reputo troppo lungo. Allora comincio piano piano ad aprire gli occhi per capire quanta luce filtra dalla finestra. Ne filtra un po’. Bene ciò vuol dire che non ho fatto troppo tardi. Ma non so esattamente che ore sono. Allora apro gli occhi sempre un po' di più, prendo coraggio e guardo l’ora: sono le 20:15. Oggi è andata bene. Avevo puntato la sveglia alle 20:30. Ho perso 15 minuti di sonno. Vado in cucina. Mangio con la famiglia. Mi sforzo di mangiare. Non ho fame appena sveglio. Ma una volta ogni tanto fa piacere mangiare tutti insieme. Non faccio in tempo a prendere il caffè. Sono le 21:10. Devo uscire. Arrivo al lavoro. Guardo i colleghi. Gli occhi sono aperti. Ma vedono solo il minimo indispensabile. Timbriamo. Ci andiamo a cambiare. Prendiamo posto in fabbrica. Cominciamo a contare il tempo che ci manca prima di uscire. Sono le sei. Siamo tutti in fila davanti alla timbratrice. Sembriamo tanti Fantozzi sempre più tristi. Mi metto in macchina. Comincia ad albeggiare. Arrivo a casa. Mentre mi preparo per andare a dormire. I bambini si svegliano non voglio guardarli negli occhi.
Certe volte mi sveglio ma non ho paura di aprire gli occhi. Non ho più sonno. Non temo di aver fatto tardi. Non temo neanche di essermi svegliato troppo prima. Non spero che la sveglia suoni il prima possibile per indicarmi che non ho fatto né tardi né presto. Guardo la sveglia. Sono le 10:00. Oggi sono di riposo. Mi alzo. Accendo le luci. Non mi preoccupo di far rumore. In casa non c’è nessuno. Mia moglie è al lavoro. I bambini sono a scuola. Io sono di riposo. Penso che avrei preferito andare al lavoro. Mi affaccio in balcone. Il portiere mi guarda. Non mi saluta. Sono 10 anni che vivo in questa palazzina a Milano. Le persone ancora non mi salutano. Non si salutano neanche fra di loro. Il portiere starà pensando ancora una volta che mi hanno licenziato. E’comprensibile. E martedì e sono a casa. Guardo il cielo. E’ grigio. Fra poco pioverà. Sabato e domenica che ero al lavoro c’era il sole. Dio non fa i turni.
Certe volte non vorrei svegliarmi. Vorrei essere svegliato dall’odore del caffè che pervade l’aria. Vorrei essere svegliato dalla mia giovane cameriera che mi accarezza la spalla dicendomi:
Direttore, è tardi oggi deve andare in fabbrica. Ed io vorrei girarmi dall’altra parte con il sorriso sulla bocca e rispondergli. Non ti preoccupare, Io non ho il cartellino da timbrare come i miei dipendenti.


Roberto Di Giuseppe

mercoledì 4 maggio 2011

Il capitalismo postmoderno

L'era capitalista sta per essere schiacciata sotto il peso delle sue nefandezze. Capitalismo nella società del postmoderno sta oggi a indicare un apparato negativo, un sistema di far fruttare il denaro in maniera disonesta e indiscriminata, senza regole, senza remore morali, odioso libertinaggio speculativo di forme economico-finanziarie che hanno assunto la caratteristica di veri cataclismi nell'ottica brutale di una logica violenta e millantatoria, che si avvale solo d'ingenti somme di denaro da far fruttare al massimo del rendimento consentito. La logica da cui prende le mosse origina da una contaminazione a livello egoistico personale che fa di tutto per "arraffare" ricchezza inquinata, dove il malaffare e la disonestà fanno la parte del leone, nutrendosi di volta in volta di ordinamenti obsoleti, di sotterfugi e millanterie, contravvenendo ogni remora morale. Esorbitante diventa l'individualismo egocentrico e l'accaparramento di guadagni illeciti.
Il termine "capitalista" si trova per la prima volta secondo P. Bernitt nel 1790 pronunciato da Mirabeau, stante a indicare nella Francia di allora una persona ricca, con un potere enorme ricavato esclusivamente dai redditi
delle sue sostanze. Il significato del termine divenne in seguito dominante e fu usato in molti altri casi in cui vi fosse necessità di speculare sul reddito e di farlo fruttare indiscriminatamente, invadendo anche il denaro pubblico e investendolo di ufficialità, ove non vi siano neppure l'ombra delle garanzie, contaminando così l'economia che si vede invasa da titoli-spazzatura che vanno ad intaccare l'economia del povero risparmiatore indifeso di fronte a cotanto meccanismo di genialità perversa.
Per "capitalismo", allora, è inteso un sistema di produzione susssidiaria che scinde il reddito da lavoro, anzi lo esclude: facendo della forza produttiva dell'interesse e dell'investimento la sua arma vincente, il suo massimo
punto di forza. Già il termine stesso: "interesse privato" esprime un luogo intensamente accrescitivo di trasformazione del guadagno che da facile diventa illecito e in tal senso trascina con sé tutti gli egoismi ad esso connessi e le negatività, le nefandezze implicite o esplicite di attribuzione del denaro con caratteristiche improprie, quasi sempre di natura deprecatoria e iniqua.
Spesso il termine "capitalismo" è seguito da oscuri presentimenti negativi, quali espressioni derivanti da una frattura che, se sta nell'ordine delle cose come iniqua, ne segna certamente una involuzione di segno etico-morale.
In realtà, nella società del postmoderno il dio-denaro divenuto segno distintivo di malaffare e di mercato illecito, ha prodotto solo scompensi e catastrofiche inversioni di accaparramenti illeciti  dell'economia planetaria; ha forgiato una società "malata", priva di scrupoli, compromessa a tal punto da rappresentare un pericolo per le nazioni, poiché va ad inserirsi in un sistema di scambi direzionali difettivi dell'ordinamento etico del mondo.
Il "capitalismo" moderno accoglie in sé il fondamento più deprecabile dell'individuo, in quanto l'istinto perversivo di accaparramento dei beni materiali è divenuto nel tempo sempre più invasivo ed esponenziale
dominandone il senso speculativo, istintuale perpetrato ai danni dei più ingenui. I danni che ne derivano sono nell'ordine morale, ma anche di "potere" sugli altri.
La degenerazione del prodotto speculativo inquina e corrode la mente, paralizza le capacità economico-finanziarie di un popolo o nazione, riduce le norme vigenti in mere e improponibili devianze entro cui il genere umano viene stritolato da un complicatissimo meccanismo che lo ammorba e corrode, in un deterioramento e pervertimento della logica e della coscienza.

Ninnj Di Stefano Busà

domenica 1 maggio 2011

Uomini fiammifero

Bocconi roventi

graffiano

le gole urlanti

unghie di gatti pazzi

amputati ancor vivi

forchette arrugginite

trapassano gli occhi

credevano d’essere uomini

invece erano fiammiferi…


Spostate le carcasse nere

in luoghi ancora più bui

restano di loro fotografie spente

sbiadite da pianti

che giorno dopo giorno

mutano i dolci e familiari sorrisi

in orribili ghigni sorpresi…


Ai 7 ragazzi morti bruciati alla “Thyssen-Krupp” di Torino il 6 dicembre 2007


Roberto Marzano