Esiste un futuro per i giovani italiani?

lunedì 25 aprile 2011

Badanti

Flotte
sotto gli alberi dei giardini
mucche
accaldate in cerca d’ombra
dopo aver brucato a lungo.

I vestiti migliori
collane finte
finti denti d’oro
si intravvedono
mentre parlano tra loro.

Domenica
giorno di festa
ozio
incontri
telefonate…

Parenti lontani
aspettano il ritorno…


Maria Pia Altamore

sabato 9 aprile 2011

Il Lavoro e la Costituzione

Se ne sta lì in piedi, il Lavoro, sulla porta d’ingresso della Costituzione della Repubblica Italiana. 
L’art. 1 solennemente recita: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
La carta su cui si fonda questo nostro Stivale, dalla suola logorata da ataviche divisioni, da stranieri che lo calpestarono e da indigeni che lo calpestano ancora, è forse una delle poche che non pone in apertura concetti belli come l'égalité francese, tanto meno the Fredoom americana o a dignidade da pessoa humana portoghese.
Seguendo la GenesiIl Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” a noi tocca il Lavoro.
Ma perché proprio il Lavoro? Mi pongo questa domanda. 
Esco di casa e vado al lavoro. 


Marco Stizioli

lunedì 4 aprile 2011

Il corpo delle donne nell'Italia dei nostri tempi

In occasione dell’8 marzo, festa della donna, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha tenuto un discorso in cui ha messo in luce diversi aspetti dell’emancipazione femminile. Il Presidente ha così sottolineato che “oggi si può affermare che il grado d’impegno delle donne per la parità, l’affermazione del loro ruolo nei vari ambiti sociali, il livello di uguaglianza, di dignità e di considerazione di cui esse godono sono tra i principali indicatori della maturità e dello stato di salute dei sistemi democratici”. Ma non solo, egli ha anche evidenziato aspetti che sembrano contrastare con questo appello democratico. Infatti egli ha affermato anche che “tuttavia le donne italiane sono ancora lontane dall’aver conquistato la parità in molti campi. Basti ricordare il divario di genere, quale risulta anche dai rapporti internazionali, nella rappresentanza politica, nei media, ancora in qualche carriera pubblica, nella conduzione delle imprese, basti più in generale ricordare il divario e le strozzature che pesano nell’accesso al mercato del lavoro”. E ancora più a fondo il Presidente ha proposto un imperativo “Bisogna dire basta alle donne oggetto. È necessario incidere sulla cultura diffusa, sulla concezione del ruolo della donna, sugli squilibri persistenti e capillari nelle relazioni tra i generi, su un’immagine consumistica che la riduce da soggetto ad oggetto, propiziando comportamenti aggressivi che arrivano fino al delitto”.
Il discorso del nostro Presidente della Repubblica non dice nulla di nuovo e nulla di particolarmente sconvolgente, l’Italia è palesemente un Paese arretrato, rispetto agli altri Paesi occidentali, in relazione alla questione della donna.
Dal punto di vista politico basta pensare alla Francia, dove una donna, la socialista Ségolène Royal, nel 2007 è stata la sfidante al potere dell’attuale Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy, alla Germania, in cui al potere è la Kanzlerin[1] Angela Merkel per il suo secondo mandato, oppure all’Inghilterra, dove Elisabetta II non è la prima regina donna del regno (e da molti secoli). In Europa tutto questo, mentre in Italia, e proprio anche l’8 marzo, si litiga sulle quote rosa e una donna al potere è impensabile, per questioni culturali, sociali, politiche.
In Italia per una donna non è, però, solo la politica, o anche il mondo del lavoro più in generale, a mostrare i limiti del nostro Paese rispetto alla questione femminile; infatti, come sottolineava già Napolitano, in Italia la donna viene spesso ridotta a “donna oggetto”. Questo è evidente in show televisivi in cui ballerine semi-nude accompagnano presentatori maliziosi alla conduzione di programmi di scarso retaggio culturale, pubblicità in cui donne nude o ammiccanti sponsorizzano acqua o yogurt, al punto che ad acqua e yogurt non si fa più nemmeno caso e l’unico legame tra pubblicità e acquisto potrebbe essere l’illusione di un uomo di poter acquistare con l’acqua anche quella donna meravigliosa dello spot.
Ma veramente gli uomini italiani sono così bassi? Secondo i tedeschi sì.
Basta prendere in considerazione la pubblicità della Müller, la nota marca di yogurt, tedesca appunto. La pubblicità in Germania fa leva su contenuti completamente diversi – la salute, la famiglia, l’ironia –  rispetto a quelli della pubblicità italiana, solo andare su YouTube per fare un confronto permette di rendersi conto che le due pubblicità sono decisamente differenti, al punto da riflettere due popoli completamente difformi[2]. E se questo non fosse sufficiente, se l’originalità del popolo italiano nella considerazione della donna come “donna oggetto”, a partire dal campo pubblicitario, ancora non convincesse, se si volesse ancora dire: ma l’Italia non è un Paese anomalo, tanti Paesi europei sono così e pure peggio. Allora prenderei ancora in considerazione la stessa marca di yogurt e confronterei gli spot dello stesso trasmessi in diversi Paesi[3], anche dell’est Europa. Il risultato è esattamente quello del confronto con la Germania: il nostro spot è l’unico ad avere contenuti sessuali espliciti. Ma se la pubblicità è di uno yogurt tedesco e quindi richiesta da un’azienda tedesca che di certo non vuole abbassare i suoi profitti per uno spot di basso profilo, allora è così che ci vede la Germania? E forse, allargandoci anche un po’, l’Europa? Come un popolo di maschi arrapati capaci di comprare uno yogurt solo perché si vede un po’ di carne gratuitamente? È dunque questo che siamo noi italiani?
È evidente che anche una televisione siffatta non è una televisione per le donne, ma ruota attorno a esigenze unicamente maschili, alla soddisfazione di desideri decisamente virili piuttosto che femminili. La società italiana sembra così presentarsi come una società ancora fortemente maschilista, legata a valori e principi che poco possono essere considerati condivisibili dai due sessi, ma solo imposti da uno. E la cosa peggiore è che la maggior parte delle donne italiane sembra essere completamente indifferente a tutto questo e accetta una televisione, manifesti pubblicitari, mega- e minischermi nelle più grandi stazioni d’Italia, che pubblicizzano ogni sorta di prodotto (dal cibo per cani ai jeans) con una ricchezza di “tette” e di “culi” da far invidia a Playboy, come una televisione adatta a bambini e famiglie. Sembra che non ci siano più valori, punti di riferimento, ma solo un mondo fatto di superficialità e superfici tondeggianti e bene in vista.
Eppure, nel nostro Bel Paese, in cui il ministro delle Pari Opportunità è un ex-velina, il Presidente del Consiglio ultimamente appare al mondo come un vecchio pervertito che probabilmente il marchese De Sade avrebbe considerato degno del suo circolo e la maggior parte delle donne sembra asservita a meccanismi puramente estetici e sessuali, esistono ancora persone, sia uomini che donne, che si indignano di fronte a tutto questo e che fanno di tutto per far sentire la propria voce, che scelgono di agire e creare tutto un mondo che si stagli al di là di quello che trapassa tramite i diversi media[4]. Quello che si deve fare dunque non è mangiare la foglia o chiudere gli occhi per non vedere, ma ricordarsi di quello che siamo e che portiamo con noi ogni giorno. Non possiamo scordare, ma dobbiamo esaltare la nostra umanità, che consiste nell’essere fatti di carne che soffre e che gode, di un corpo che è ciò che noi siamo, poiché noi siamo il nostro corpo. Allora non si può far altro che scegliere: scegliere se seguire i media o andarci contro – non necessariamente pubblicamente, anche solo portando avanti una propria personale scelta esistenziale –, scegliere in che modo gestire e mostrare il proprio corpo, ovvero se come un pezzo di carne oppure come un aspetto imprescindibile dell’umano.

Fo Elettrica



[1] Ci tengo a far leva sulla parola Kanzlerin, perché se Kanzler è la parola tedesca maschile per “cancelliere”, l’aggiunta del suffisso –in la rende femminile, la “cancelliera”.
[2] Spot italiano e spot tedesco a confronto. Invito a vedere anche questo servizio de “Le Iene” (09/03/2011) sulla pubblicità italiana.
[4] Esistono eventi, come quello “Sono donna e dico basta” della Repubblica proposto dopo lo scandalo Ruby, donne che esprimono fanno leva sulla loro femminilità attraverso poesie, come Lisa Corva che scrive su City, blog che si interrogano sui problemi della donna nel nostro tempo, come “Il corpo delle donne”, e tantissimi gruppi di sostegno, aiuto, intervento tramite azioni dirette oppure consigli.


sabato 26 marzo 2011

Una vita spesa

È difficile parlare del lavoro pur non avendone mai fatto parte. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare cantano gli Skiantos, che un bel giorno hanno detto no alla fresa e sì alla chitarra. Vantandosene.
Il lavoro nobilita l’uomo, diceva un tale che magari zappava le sue dieci ore al giorno, ma che evidentemente non stava arando mentre pronunciava queste parole; e meno male che nella sua epoca non esisteva la barbarie del copyright, altrimenti non potremmo nemmeno citarlo aver prima rimborsato la SIAE.
Espedienti retorici a parte, e tralasciando pure banalità come “è lo spirito con cui si fa qualcosa che la rende utile o meno”, con la presente affermiamo che il lavoro fa paura quando diventa un hobby come un altro, e proprio per questo un semplice e intercambiabile passatempo.
Avete presente le vecchine tanto pie, che conoscono le preghiere più rare, recitate mentre affollano le panche di una chiesa di paese? Sì, proprio loro, quelle che di fronte a delle domande, risponderebbero che sì, credono senza esitazione nel loro Dio che si manifesta attraverso la Chiesa Cattolica, nelle messe sia della domenica che dei giorni feriali, nelle tonache e nei crocefissi in un edificio pubblico.
Ora, immaginate che nel nostro paese si veneri invece Ra, il Dio-sole degli antichi Egizi: le vedreste ogni giorno in pareo a fare bagni di luce, e al posto di Caravaggio andrebbero in pellegrinaggio alle Canarie, per poterlo venerare anche  il 25 di gennaio. Con identica, saldissima convinzione, pur essendo quelle stesse persone che, in questa dimensione, rispettano con zelo i Dieci Comandamenti.
E se anche il lavoro fosse così?
Prendete una persona, allevatela nel culto di una società fondata sul lavoro, insegnatele che i poliziotti di qualche telefilm sono dei fighi pazzeschi, anche se nella professione reale non smascherano un Arsenio Lupin al giorno ma piuttosto svolgono incarichi non esattamente gratificanti, così fino alla pensione ed al meritato paradiso. Oppure prendete la stessa persona, magari più cresciuta, e sbattetela a pinzare fotocopie per tutto il giorno, a compilare pratiche di dubbio interesse o a fabbricare autoveicoli che qualcun altro guiderà. Fategli questo, e ditegli che è bene non solo per gli altri, ma perfino e sopratutto per se stessi. Mettetela di fronte a questo, senza alternative di sorta.
Creategli il deserto attorno, in modo che il lavoro appaia come l’unica oasi possibile, ponetelo di fronte all’opzione a) senza che vi sia una b). Alla fine cosa sceglierà?
Può invece darsi che, per banalissima e inattaccabile accidia, avrà semplicemente optato per il lavoro più comodamente raggiungibile, lo stipendio più sicuro, quando magari la suddetta persona aveva un discreto talento per la matematica. Ma, per mancanza di stimolo  allo studio o per assenza di possibile retta universitaria, finisce per trovarsi un impiego da piastrellista infelice.
Prendete altrimenti una ragazza [par condicio, ndr], non offritele particolari svaghi ma “solo” una possibile, futura carriera lavorativa da assicurarsi grazie a una seria e solida, preparazione-universitaria-necessaria-per-il-futuro. Non meravigliatevi se finisce per parlare ininterrottamente di esami anche il sabato sera.
Per cosa? Lavorerà, o studierà per farlo, semplicemente perché gli mancano alternative, o anche solo la voglia di cercarsele, queste benedette alternative. Oppure svolgerà compiti lontanissimi dalle sue reali inclinazioni, perché possedeva requisiti economici o di voglia per sviluppare la sua predisposizione per la matematica. O perché, con l’agognato e odiato impiego, si è banalmente trovato/a ad averci a che fare, e per quieto vivere l’ha scelto, arrivando infine a lavorare per pigrizia. Mannò, come può essere pigro chi si sbatte in ufficio anche dodici ore al giorno?
Forse lo stakanovista più incallito è semplicemente l’immagine speculare, e quindi gemella, di un disoccupato volontario.
Finisce così che labor, fatica, diventa sinonimo di niente-di-meglio-da-fare, o scambiare stelle per lampioni. Il problema non è tanto essere tutti Superman, ma sentirsi realizzati anche da Medioman.

Silvio


domenica 20 marzo 2011

Due filosofi discutono sull’Eros. Pensiero maschile e femminile a confronto

L’atmosfera in quel luogo era fumosa, offuscata dall’alcool, le parole, i sigari cubani e le sigarette con bocchino. I tavoli erano distanti sufficientemente gli uni dagli altri per rendere i discorsi degli altri presenti solo dei sibili che si mescolavano con il jazz di sottofondo, il quale riempiva gli attimi di silenzio, ma senza invaderli.
Lui fumava la pipa e lentamente aspirava e buttava fuori il fumo con una gestualità naturale, lei sorseggiava il vino color rubino increspando ogni tanto le labbra, un atto che esprimeva il suo piacere.
Tra una boccata e l’altra lui chiese, con fermezza ma senza fretta, tranquillamente: “Che cos’è l’Eros?”.
Un sorso di vino e poi lei sussurrò: “Non saprei risponderti. ogni definizione mi sembra riduttiva”. Una pausa.
Lui incalza: “Già, è difficile definire ciò che sembra sfuggirci da ogni parte”.
“L’amore forse non è un oggetto definibile”, riprende lei “e forse non è proprio un oggetto”.
Un altro sorso di vino, un altro sbuffo di fumo.
“Eppure di definizioni se ne sono tentate molte. Penso al simposio di Platone, penso a Žižek: ‘Love is evil’“.
“Oppure Radiguet”, prosegue lui “che in Il diavolo in corpo sostiene che Eros sia ‘egoismo di coppia’, per cui la distruzione, il male sono intrinsecamente presente nell’Eros. L’Eros è distruttivo nella sua creazione: è sempre contro ciò che esiste – citando Galimberti. Dunque l’Eros conserva, ma non auto-conserva: conserva altro che non è il soggetto portatore di amore”.
Lei riflette un momento. Trae un sospiro per concludere che: “No, non c’è distruzione nell’amore. Nell’amore si parla di reciprocità, di dare e ricevere. In un rapporto cambi con l’altro, nel rispetto dell’altro. Siamo di fronte a un compromesso nella fusione di mondi”.
La  musica jazz interrompe il silenzio, la voce nera si innalza forte e prorompente sugli strumenti e per un momento distoglie la loro attenzione.
“Forse stiamo dicendo la stessa cosa”, afferma lui rassicurante “C’è un io, nella sua quotidianità, più o meno apatica, nelle sue certezze, nei suoi progetti, ambizioni etc. Al suo orizzonte appare un altro che destabilizza, scardina quell’equilibrio. Cosa succede? Qualcosa va distrutto”.
Lei sorride: “Si porta allo scoperto l’indecenza. Quello che Lévinas chiamerebbe il dis-astro. Il soggetto solo è l’Altro, nell’amore l’astro si distrae da sé. È lo stato d’eccentricità dell’uomo innamorato: il suo centro è altrove”.
“Appare la nudità”.
“Cosa intendi per Nudità?”, domanda lei corrucciando la fronte.
“Nudità come nudità sia fisica che mentale. Evoca fragilità, esuberanza, paura, oscenità, pudore, imbarazzo”.
“Ma cosa ti spinge ad accettare tutto questo? Come arrivi alla Nudità?”.
“Partiamo dal principio: perché ci vestiamo?”, chiede lui con una punta di provocazione.
“Per vergogna, per proteggersi”.
“Da cosa?”.
“Da una non innocenza dello sguardo, proprio e altrui. Vogliamo evitare una violazione/appropriazione”.
“Qual è la differenza tra violazione e appropriazione?”, insiste lui.
“Ci può essere violazione senza appropriazione, violazione con appropriazione, appropriazione con violazione, e appropriazione senza violazione. Ciò che discrimina è il consenso”, risponde lei  tranquillamente. “Ma perché invece ci svestiamo?”, domanda lei a questo punto.
Uno sbuffo di fumo inonda il tavolo.
“La nudità permette l’incontro. La comunicazione implica un’apertura, una lacerazione; svestirsi è aprire, lacerare la pelle.
“Non mi piace ‘lacerare la pelle’“, lo interrompe lei “non c’è niente di più sensuale ed erotico della pelle. La pelle è porosa, assorbe ed emana, scambia, permette un passaggio, svelando e ri-velando. Se togli e laceri la pelle laceri un velo: passi dall’erotismo alla pornografia”.
“Cos’è pornografia? Null’altro che togliere il mistero all’Eros; la visione senza mistero, l’annullamento della dimensione simbolica. Tutto è riconosciuto come carne, come atto. È il passaggio dal simbolo al segno”.
“Ma allora qual è la differenza tra sesso e amore?”, domanda lei un po’ accigliata.
Lui rimane in silenzio, lascia il fumo uscire anche dalle narici.
“C’è sesso senza amore”, afferma allora lei. “Ma nell’amore l’atto sessuale è l’apice stesso dell’amore”.
“Bataille”, sussurra un attimo dopo lui “‘L’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte, e ciò tanto nell’erotismo dei cuori che nell’erotismo dei corpi: una sfida alla morte lanciata dall’indifferenza’”.
“Oppure Galimberti”, prosegue lei “‘Oltre alla morte c’è un altro modo di sperimentare il sacrificio della propria individualità nel corso della vita: è il modo della sessualità in quel suo apice che è l’orgasmo. Nell’apice dell’amore, infatti, l’Io e il Tu si dissolvono come il gioco del vedere e dell’esser visto, e questa rinuncia del proprio Io e all'immagine del proprio corpo è resa possibile dalla fiducia nell’altro, senza la quale non potrebbe essere superata la profonda angoscia che l’orgasmo possa condurre alla perdita di sé come nella morte”.  
“In effetti”, ammette lui “per l’uomo è più facile scindere sesso e amore. Il guaio è quando nel sesso si mette l’amore. Quando l’uomo si innamora va in tilt. Per l’uomo prima c’è il sesso poi l’amore, per la donna il contrario”.
“E quindi”, domanda lei con una punta di sarcasmo “voi avete paura di innamorarvi?”.
Lui ride, appoggia un attimo la pipa sul tavolo, la guarda negli occhi e avvicinando la sua mano a quella di lei le si avvicina in modo che le due paia di occhi si trovino a non più di dieci centimetri di distanza.
“Lasciamelo dire sinceramente, te lo sussurro: sì”.
Detto questo si riallontana e riprende possesso della pipa.
Per risposta lei gli sorride maliziosamente, non aggiunge altro, è curiosa di vedere come lui potrà argomentare la sua posizione.
Uno sbuffo di fumo esce dalle sue labbra e pare più che altro un sospiro.
“Con l’amore perdo il controllo sulla mia vita, su ciò che è di mio dominio. L’amore fa irruzione, è qualcosa che io non scelgo. Il momento in cui ti accorgi di essere innamorato è sconvolgente, si apre una ferita. Non lo scegli, è chance, opportunità, sfugge al controllo. Occorre a quel punto sacrificare qualcosa del proprio mondo e aprire la possibilità dell’incontro con l’altro. Questa però rimane una possibilità, l’esito non è scontato. È  una scommessa. È vertigine, è abisso”.
Lui a questo punto sposta lo sguardo, gioca con la pipa tra le dita e poi la guarda negli occhi aspettando una risposta.
“E non può essere anche bello l’innamoramento?”, lui fissa il suo sguardo in quello di lei. “Per come lo hai detto ho come l’impressione che uomini e donne vivano il momento dell’innamoramento in modo diverso. Tu ne hai parlato in termini di sacrificio. Io, da donna, posso dire che amore è lasciar essere,  senza necessità di sacrificio, accoglienza dell’altro nella sua interezza. Come dice Derrida: ‘Si ama il chi, non il che cosa’.  La donna è madre, è fatta per accogliere, e in questa accoglienza non c’è sacrificio. Amare per noi è ritrarci, non potenza”.
Lei beve l’ultimo sorso del bicchiere, si asciuga le labbra con un tovagliolino di carta; lui emette un’ultima nuvola di fumo e svuota la pipa.
La musica jazz inonda il silenzio, la voce nera raccoglie l’attenzione.

Tratto da un incontro del CdFE riadattato da

Fo Elettrica


sabato 5 marzo 2011

Alcuni elementi per un'accezione di corporeo nel Cyberpunk

La degenerazione, la trasmissione di questa e il suo proliferare sono il centro di molta della produzione di Cronenberg e in generale di ogni autore che tratta il genere Cyberpunk e ne descrivono l'effetto di diffusione della stessa fama del regista. In altre parole lo stesso genio visionario diffonde il proprio genere come un virus che prolifera nel mondo mediatico.

Per quanto concerne l'idea di cambiamento qui operata non si può parlare propriamente di metamorfosi, non si tratta di un cambiamento tout court, quale la crisalide in farfalla. Questo termine, nella sua storia ha un che di positivo riguardo la forma; anche nella più angusta sorte (si pensi al Samsa di Kafka o alla Dafne di Ovidio) la mutazione avviene da una forma all'altra in maniera completa e perfetta[1] anche se in rapporto eterogeneo con i simili. Nella degenerazione la forma rimane informe[2], muta senza una costituzione precedente bensì si costruisce come alterità, ibrido, alieno o deformità; si dà forma in guisa  di vita nuova e nuova carne, è l'emergenza della vita sotto una diversa configurazione. La nuova vita – la nuova forma generata dalla precedente morte, dal precedente eccesso- necessariamente, per essere una degenerazione propria del cyberpunk non basta essere intesa come singolarità mostruosa[3], non basta il darsi di una mutazione, serve inoltre che la deformazione continui nello spazio, nel tempo, che sia proliferante anche solo potenzialmente. Anzi, credo che si possa intuire dalla visione di Cronenberg, Romero, Tsukamoto e per l'intero filo rosso che li collega, la contaminazione esponenziale si può dare anche come semplice virtualità. La degenerazione deve comporsi in maniera essenziale con la proliferazione, non è sufficiente la mera metamorfosi per caratterizzare la quello che avviene in questa categoria estetica postmoderna.

In secondo luogo non si può parlare di semplice trasmissione, né nel senso comune di tradizione, ovvero di passaggio da un luogo all'altro, né quello che in gergo medico si denota come infezione. La neutralità di uno scambio è data solo nell'apparenza, basti anche solo pensare allo scambio metabolico: l'omeostasi di un individuo collabora sempre con la propria transistasi permettendo all'individuo biologico un incremento e un decremento di parti che tuttavia non inficiano nella pemanenza formale, solo di una modificazione che in filosofia classica viene connessa alla causalità materiale; la forma rimane le parti in più vengono rigettate e quelle che deficitano di qualche bisogno vengono saziate o rimpiazzate. Tuttavia, senza entrare in nuovi paradossi quale quello della barca che viene volta a volta rimpiazzata da pezzi nuovi fino a che non si sa quale delle due barche (la seconda costruita con i pezzi tolti dalla prima) è la barca assicurata[4], si deve ricordare che stiamo vedendo questo concetto come labirintico, in cui lo stesso Bataille aveva rifiutato in parte il concetto di individuo come essenza a se stante per introdurre una forma eterologica dell'uomo e dell'ente in generale. Il divenire-altro dell'escrezioni e il divenire-sé del nutrimento ledono il principio di unificazione del singolo all'interno di una forma fissa, la forma del singolo, estraneo ad un sistema che lo funzionalizzi omologandolo[5], è una forma-informe che produce alterazioni di sé e che informa ciò che viene a contatto con lui, se non altro attraverso quella che chiamiamo “ferita”; la comunicazione è una mutazione, non un semplice passaggio di informazioni. Si può anche leggere questo in chiave di apporti energetici, come lo stesso Bataille non manca di sottolineare[6]. Ciò che comunica trasmette una parte di energia in più[7], un proprio effluvio, una sua degenerazione, che a sua volta diventerà eccesso, energia in sovrappiù da parte di chi riceve la comunicazione, deformata. Stando anche al feedback, la reazione a seguito di ogni azione, ciò che si registra è la modificazione reciproca dei comunicanti, una comune apertura gli uni degli altri a diventare diverso, a ricevere e a dare, a divenire e trasferire l'immagine dell'altro e di sé all'altro. Nella trasmissione cibernetica non vi si trova un banale scambio di informazioni ma una trasformazione del ricevente il messaggio, il carattere labirintico che ne consegue cresce esponenzialmente quando il contenuto del messaggio è la trasmissione stessa del messaggio[8]. La proliferazione non è propria del cyberpunk se essa non ne veicola il carattere degenerativo alla base.

Si veda anche, per un approfondimento, il concetto benjaminiano di perdita dell'aura nel lavoro sul Kafka di Walter Benjamin nell'opera di Gabriele  Scaramuzza “Deformazioni incrociate”: nell'atto stesso di citare la deformazione la citazione medesima assume senso come unico modo possibile di “tenere in vita”. L'ipostatizzazione dell'originale, la sua integrità auratica, è dissociazione dall'intento comunicativo, è volontà di essere un tutto al di fuori, fumosità del trascendente alla Deleuze.

Chiariti i termini è ora possibile indagare alcune parole chiave della cultura cyberpunk (Riferite in particolare alla cinematografia di Cronenberg), che “casualmente” sono termini già incontrati nel pensiero di Bataille. L'eccesso, inteso come esperienza del limite fino al raggiungimento attuale del culmine umano[9]. L'eccesso nel cyberpunk viene ad identificarsi da principio con l'inorganico cui tende l'organico come un conato, infatti la fusione dell'inorganico si orienta -nel filo rosso preso in questione- all'interno di un linguaggio metaforicamente erotico. Non si può parlare di erotismo senza che ci sia un'apertura, ovvero una “ferita” o peggio “un'amputazione”, come dice anche McLuhan ne “gli strumenti del comunicare”; La fusione tra uomo e macchina avviene solo se s'incorre nell'amputazione delle terminazioni organiche, se ci si scontra con l'eccesso con l'inorganico, il quale ha bisogno, per connettersi di un'apertura dell'organismo all'inorganico, al macchinale. La fusione o la metamorfosi rientra a pieno titolo nella legislazione dell'incidente o nella violenza[10] (in un modo o nell'altro). La ferita sarà il segno distintivo dell'evento d' ibridazione uomo macchina nel contesto dell'incidente.
La sinestesia non è da sottovalutare come mera figura retorica. Essa è peculiare del rapporto tecnologico tra organico e inorganico, il cortocircuito della fruizione estetica passa proprio tramite quest'aspetto. Si è visto nella breve storia del brutto[11] la necessità della distanza affinché la fruizione estetica si concluda in una catarsi, fino all'estetica del novecento ove i parametri cambiano. Il gusto, il tatto e l'odorato - lo stesso Hegel[12] spiega - comportano una degenerazione in luogo del consumo dell'oggetto stesso, mentre la contemplazione audiovisiva permette di “giocare con la cornice”. Il tatto scombussola tutto, manda in corto circuito questo schema di fruizione estetica in quanto presuppone un coinvolgimento eccessivo ed una modificazione reciproca tra fruitore e fruito; la sinestesia si manifesta, all'eccesso quale pure il modus essendo proliferante -labirintico- , assurge a valvola d'immedesimazione del fruitore all'interno della fruizione stessa, senza più gioco interno-esterno, ma solo ed esclusivamente all'interno del mondo simbolico cui entra a far parte.
Proprio come diceva McLuhan infatti la televisione – evento mediatico che sia cronenberg che gli altri autori che vedremo prendono in seria considerazione – non coinvolge solo la vista e l'udito ma tutti i sensi, l'individuo è sì isolato come afferma Debord, ma ad un tempo è coinvolto totalmente all'interno del mondo di cui è spettatore attivo[13]; in questo senso il medium televisivo funge da ibrido tra l'icona e il simbolo.
L'esito della sinestesia è il soggetto ibrido. Cos'è ibrido? Ricordando la dialettica delle forme e la composizione degli esseri[14], si può dire che ogni ente concreto sia essenzialmente ibrido; non si da mai un'inseità totale che nella divinità, mentre ogni essere materiale (concreto), nella comunicazione[15] è sempre mischiato al contiguo, la sua essenza come non informe è un'astrazione come il volto dell'americano medio rispetto le altre 400 foto[16]. Ma c'é di più: ibrido non è solo essere contaminato, ma il più contaminato di tutti (o almeno il più contagiato rispetto a  altri) all'interno di un insieme di individui isomorfi, ovvero è l'emergenza, il mostruoso. Lo shockante dell'apparire di un eccesso di contaminazione/degenerazione, ovvero, ricalcando una delle immagini tipiche di George Romero, quando il morbo ha preso così tanto piede da produrre una nuova non-vita/non-morte. Il limite del quantitativo permesso viene trasgredito e trapassa in una differenza qualitativa. Cosa succede quando l'ibrido si manifesta? Nel cyberpunk, nell'horror e in ogni genere che ne tratta segna il momento in cui i due piani vengono cortocircuitati e nasce la problematizzazione[17] sia dell'altro che dell'ambiente che si pensa sotto il proprio controllo, tanto più che è un cliché della suspance la comparsa dell'ibrido proprio nel “campo di resistenza” degli “umani” all'interno dei film horror. Proprio all'interno dell'ibrido si attua un puro divenire dei due mondi antagonisti e opposti:vivo-morto, organico-inorganico, reale-virtuale in cui i due aspetti si confondono e mischiano   senza un senso progettato, un acefala sintesi in cui il coltello e la ferita si coimplicano[18].

Risposta:l'ibrido rivela un'apertura all'interno dell'astratta quanto fantomatica integralità di classe, l'aura ha già iniziato a emanare il fetore della propria decomposizione.

Nyarlathotep
 

[1]Un'eventuale segno distintivo non ne inficia la completezza ma rimane come “punctum” rivelatore di una zona morta, di un passato logico che ne giustifica ma ad un tempo problematizza lo stato attuale.
[2]Proprio nel senso batalleiano del termine “informe” delineato in Documents
[3]Mostro: dal latino monstrum, in greco φαινόμενον. Il mostro è ciò che si mostra, che emerge ed è caratterizzato dall'apparire. Il manifestarsi di una diversità dati determinati parametri è ciò che si definisce come “mostruoso”.
[4]“il libro dei paradossi” ….........................
[5]Che lo faccia diventare Organo, ovvero “strumento”, secondo la terminologia di Cronenberg in Videodrome,
[6]Il labirinto???
[7]Forma escrementizia che è pure l'arte, lo scarabocchiare è già un rovinare ed infangare tramite un sovrappiù di sé tramite l'altro ormai fagocitato.
[8]Cosa che risulta lapalissiana in Videodrome.
[9]Qui il corpo si pone come centro auratico prima dell'eccesso e luogo dell'autocontrollo naturale del singolo.
[10]Cfr. A. Caronia, Virtuale, Milano, Mimesis, 2010
[11]Cfr capitolo 1
[12]F. W: Hegel, Lezioni di estetica...
[13]Dal momento in cui ne viene a coscienza, come splicictato in Videodrome.
[14]Vd. Il Labirinto
[15]Comunicazione che è strutturalmente erotica per Bataille, cfr L'Anus Solaire.
[16]Cfr. Documents.
[17]Si pensi ad esempio alla messa in questione di che cosa sia umano nei film di George Romero.
[18]Cfr. La logica del senso. Cit.

Voce

Si sa che il blues ed il jazz sono "musica del corpo", degli istinti naturali, almeno se si vedono questi generi nel loro formarsi come sottofondo di bordelli, di bettole, come lamento di negri che avevano venduto l'anima al diavolo e si aggiravano incapaci di trovare pace tra alcool e donne nei territori del Delta.
Si può dire che Bobby McFerrin faccia anche e soprattutto blues, e jazz. E forse c'è un legame tra l'universo corporale che questi generi sottendono e la specialissima tecnica che il cantante afroamericano ha sviluppato: egli, ormai da 20 anni, si esibisce da solo, utilizzando unicamente la sua voce, al massimo  accompagnata dal suono della mano che ritmicamente batte sul petto per tenere il tempo. Gran parte dei suoi live sono completamente improvvisati e costruiti sull'interazione col pubblico. Un modo di fare musica così innovativo eppure così antico, soprattutto un modo così affascinante di concepire il corpo, come una cassa di risonanza, un oggetto sonoro, il primo, il più importante, il più profondo. Saperlo muovere, conoscerne le armonie, i battiti e farli suonare, giocare insieme, questo non è solamente l'esercizio interessante e un po' ridicolo di un ometto nero in dreadlock; è un invito, l'espressione di uno stato di grazia e la volontà di comunicarlo, di condividerlo.
Abbiamo una voce che utilizziamo dalla nascita, prima lallando, nella fase in cui ancora non esiste quasi sillabazione, figuriamoci articolazione, figuriamoci parole; poi educandola, o meglio costringendola, nella corrosiva ed inevitabile – come tutte le abitudini – esposizione giornaliera alla lingua, che ci sagoma e ci incanala; e di lì sviluppando con una raffinatezza crescente la capacità di esprimerci verbalmente. Il corpo rimane, negli accenti e nelle intonazioni, nei gesti, in tutti quegli elementi che si chiamano di solito para- o extra-linguistici; ma sembra per l'appunto relegato nelle zone marginali. Credo che dimentichiamo troppo spesso le infinite possibilità comunicative che rimangono accanto – al di qua o al di là, non fa differenza – della lingua o linguaggio che dir si voglia. Mi piace "vedere" la voce come lo strumento grazie a cui corpo e mente sono saldati, intrecciati e finalmente non più disgiungibili nell'azzeramento della parola, nell'assenza di un sistema referenziale, concettuale: quando, cioè, la voce può e sa muoversi non verbalmente, senza la lingua, in versi, canto, respiro, battiti, melodie, sibili, schiocchi, pulsazioni che vengono dal corpo e del corpo raccontano, ma (e perché ma?) contemporaneamente trasmettono uno stato emotivo, una sensazione, un universo interiore.
Conoscere se stessi potrebbe voler dire sapere fare di se stessi musica, o sapere conoscere la musica corporale che abbiamo dentro? Allora forse quando ad esempio il vecchio Bobby consiglia a chi ascolta una canzone con gli auricolari per la strada: "instead of putting it on your walkman, just sing it to yourself" ("I'm my own walkman", sesta traccia del fondamentale "The voice", 1982), ciò potrebbe significare qualcosa come "supera i limiti della lingua, supera gli ostacoli che hai dentro di te, libera il tuo corpo nella felicità sorgiva di batterlo e di farlo risuonare". Avrebbe qualcosa da dire in proposito anche il greco combattente Demetrio Stratos, che all'attivismo politico radicale associava e – vorrei dire – anteponeva la ricerca sulla propria voce, sui "limiti del linguaggio" come diceva lui stesso; sostenendo inoltre che i suoi straordinari risultati in questo campo (documentati da dischi come "Cantare la voce" o "Metrodora", dove possiamo ascoltarlo produrre diplo-, triplo- e quadri-fonie), sarebbero stati anche alla portata della gente comune, che ne avrebbe vieppiù tratto giovamento.
D'altra parte, se l'oriente soprattutto taoista appare, almeno a me, così interessante e ricco di stimoli, è anche per quella sua idea – tra le tante – ancora così elementare eppure ancora così fondamentale, luminosa, frugifera, secondo cui l'uomo deve ritrovare il respiro, quello del neonato che, ignaro di tutto, è in armonia col mondo. Inutile dire che il controllo della respirazione è alla base del canto; e che la ricerca di Stratos si soffermò a lungo sulle tecniche di emissione e respirazione orientali, ad esempio tibetane. Scendere nelle profondità di se stessi per recuperare ciò che sta sul fondo, e trovare così la sintonia con ciò che – apparentemente, solo apparentemente – sta all'esterno: anche questa è un'idea forte che domina il taoismo e le filosofie orientali, mentre in occidente arriva poco, echi nei presocratici, in Platone, in Hesse la volontà di affrontarla per davvero.
Una dimensione dove il gioco e la conoscenza, il riso e l'armonia, la corporalità e il pensiero (quello vero, distillato di corpo), l'ironia e la spontaneità, lo studio e la natura, la disciplina e la libertà non siano più in contraddizione (perché non lo sono), ma tutto insieme nella coralità di un essere che comunica mentre scende sempre di più dentro di sé. Perché capisce di non avere personalità, di non costituire un io, di essere solo una parte e per questo anche tutto. Allora la ricerca del rapporto e dello scambio diventa naturale necessità, come per l'interplay del jazz e del blues, generi che vivono dell'interazione tra musicisti, del loro essere armonia unica ed irripetibile in quel determinato momento, mentre suonano insieme, quando può crearsi quella che sembra quasi una magia, di capirsi, intendersi, seguirsi e lasciarsi, comunicare senza parole ma ad un altro livello, al di qua o al di là – non importa.

Riccardo Cavalli