In più di due mesi di vita oltremanica, se mi permettete, ho notato l’esistenza parassitaria dell’essere italiano: sanno che esistiamo, siamo apprezzati (eccetto che per il rumore), solleticanti a volte, ma non facenti parte di quell’organismo. E come potremmo se appunto siamo all’estero?
Il problema non è così facilmente risolvibile, infatti quando ci si vuole sentire “italiani” non è semplicemente la regione geograficamente identificata a determinare il sentimento nazionale, ma sono determinate caratteristiche tese da una parte a confermare, dall’altro a dissacrare, certi stereotipi in cui ci si scontra. Certo, la rinuncia ad essere “un semplice italiano” è sempre forte, seppure il gioco di complicità con quel retroscena che definisce l’appartenenza al Bel Paese.
Ma quali sono questi stereotipi? Oh, tanti, proprio tanti, tanto che non valgono niente quanto qualsiasi altro stereotipo: l’italiano non è niente di speciale, nessuna bestia sacra come invece spererebbe, ma uno dei tanti con la sua strana forma, mentre si nutre in un posto dove non può definirsi casa.
Italiani rumorosi, italiani gioiosi, italiani sempre alla ricerca di una donna, italiani brava gente, italiani cantanti, italiani chiacchieroni, italiani amichevoli, italiani mafiosi, italiani che mangiano solo italiano, italiani che seducono, italiani che si riconoscono ovunque, italiani che non si distinguono da spagnoli, sudamericani e portoghesi, italiani che non si distinguono dai francesi, italiani che adorano i francesi, italiani che non studiano, italiani che non lavorano, italiani che cercano lavoro, italiani all’università, politici corrotti, italiani ingenui, italiani pulitori di pentole e gabinetti, italiani fortunati delle loro ricchezze aristiche, italiani che non sopportano il freddo, italiani che conoscono tutta Roma, Firenze, Pisa, Venezia, Italiani che vivono di calcio e famiglia, italiani gelosi dei propri partner, italiani religiosi…
Il fiume di questi luoghi comuni s’intreccia con le parole conosciute all’estero: parolacce prima di tutto, “vuoi fare l’amore con me” segue solo “bella bella” e “Buongiorno”.
L’italiano rimane stordito da queste vibrazioni: che immagine diamo ai nostri vicini? Che cosa siamo ai loro occhi? C’interessa davvero? Ci dovrebbe fare riflettere se non altro sulla storia che ha portato ad un’immagine così viva, così calda – dopotutto – nonostante quelle esagerazioni o riduzioni che ci urtano. Come siamo diventati quest’immagine generale del nostro Paese?
Sarebbe interessante oltre che estremamente lungo ripercorrere la storia di questa forma, ma essa è solo l’immagine sbiadita di un filo conduttore di un’identità che non si è mai formata, né si potrà mai formare, di ciò che italiano è. C’è tuttavia un piccolo frammento comune in ogni manifestazione dell’essere italiano, qualcosa che ha a che fare con una certa forza e passionalità ma che non si riesce a descrivere; una quale forma mentis che è come descrivesse una tenacia a resistere (talvolta a degenerare) di un sentimento di potere. Chiamiamolo sentimento di attaccamento alla famiglia, chiamiamolo passionalità erotica, oppure impossibile saturazione rispetto agli aspetti culinari propri del proprio paese, la forza della voce che vuole persistere con la sua vivacità, c’è pure una singolare forza e vivacità negli insulti, e così via. Quella stessa allegria che contraddistingue il fiume stereotipato dell’identità italiana, lega insieme ogni suo frammento, definendosi così, negli esempi storici, come unico, Italiano.
C’è un’allegra forza nello stereotipo d’italiano, che si può spiegare solo tautologicamente, quella forza che intreccia i pallidi frammenti dell’immagine del popolo dello Stivale che è quella corrente che sentiamo scorrere nel sangue, nonostante tutte le contraddizioni.
Questo solo posso scrivere, dopo l’ennesima volta che mi chiedono se sono spagnolo, colombiano o turco… dato che “certamente non posso essere italiano”.
Gabriele Perego