Esiste un futuro per i giovani italiani?

mercoledì 7 marzo 2012

Bumped into an Italian



In più di due mesi di vita oltremanica, se mi permettete, ho notato l’esistenza parassitaria dell’essere italiano: sanno che esistiamo, siamo apprezzati (eccetto che per il rumore), solleticanti a volte, ma non facenti parte di quell’organismo. E come potremmo se appunto siamo all’estero?

Il problema non è così facilmente risolvibile, infatti quando ci si vuole sentire “italiani” non è semplicemente la regione geograficamente identificata a determinare il sentimento nazionale, ma sono determinate caratteristiche tese da una parte a confermare, dall’altro a dissacrare, certi stereotipi in cui ci si scontra. Certo, la rinuncia ad essere “un semplice italiano” è sempre forte, seppure il gioco di complicità con quel retroscena che definisce l’appartenenza al Bel Paese.

Ma quali sono questi stereotipi? Oh, tanti, proprio tanti, tanto che non valgono niente quanto qualsiasi altro stereotipo: l’italiano non è niente di speciale, nessuna bestia sacra come invece spererebbe, ma uno dei tanti con la sua strana forma, mentre si nutre in un posto dove non può definirsi casa.

Italiani rumorosi, italiani gioiosi, italiani sempre alla ricerca di una donna, italiani brava gente, italiani cantanti, italiani chiacchieroni, italiani amichevoli, italiani mafiosi, italiani che mangiano solo italiano, italiani che seducono, italiani che si riconoscono ovunque, italiani che non si distinguono da spagnoli, sudamericani e portoghesi, italiani che non si distinguono dai francesi, italiani che adorano i francesi, italiani che non studiano, italiani che non lavorano, italiani che cercano lavoro, italiani all’università, politici corrotti, italiani ingenui, italiani pulitori di pentole e gabinetti, italiani fortunati delle loro ricchezze aristiche, italiani che non sopportano il freddo, italiani che conoscono tutta Roma, Firenze, Pisa, Venezia, Italiani che vivono di calcio e famiglia, italiani gelosi dei propri partner, italiani religiosi…

Il fiume di questi luoghi comuni s’intreccia con le parole conosciute all’estero: parolacce prima di tutto, “vuoi fare l’amore con me” segue solo “bella bella” e “Buongiorno”.

L’italiano rimane stordito da queste vibrazioni: che immagine diamo ai nostri vicini? Che cosa siamo ai loro occhi? C’interessa davvero? Ci dovrebbe fare riflettere se non altro sulla storia che ha portato ad un’immagine così viva, così calda – dopotutto –  nonostante quelle esagerazioni o riduzioni che ci urtano. Come siamo diventati quest’immagine generale del nostro Paese?

Sarebbe interessante oltre che estremamente lungo ripercorrere la storia di questa forma, ma essa è solo l’immagine sbiadita di un filo conduttore di un’identità che non si è mai formata, né si potrà mai formare, di ciò che italiano è. C’è tuttavia un piccolo frammento comune in ogni manifestazione dell’essere italiano, qualcosa che ha a che fare con una certa forza e passionalità ma che non si riesce a descrivere; una quale forma mentis che è come descrivesse una tenacia a resistere (talvolta a degenerare) di un sentimento di potere. Chiamiamolo sentimento di attaccamento alla famiglia, chiamiamolo passionalità erotica, oppure impossibile saturazione rispetto agli aspetti culinari propri del proprio paese, la forza della voce che vuole persistere con la sua vivacità, c’è pure una singolare forza e vivacità negli insulti, e così via. Quella stessa allegria che contraddistingue il fiume stereotipato dell’identità italiana, lega insieme ogni suo frammento, definendosi così, negli esempi storici, come unico, Italiano.

C’è un’allegra forza nello stereotipo d’italiano, che si può spiegare solo tautologicamente, quella forza che intreccia i pallidi frammenti dell’immagine del popolo dello Stivale  che è quella corrente che sentiamo scorrere nel sangue, nonostante tutte le contraddizioni.

Questo solo posso scrivere, dopo l’ennesima volta che mi chiedono se sono spagnolo, colombiano o turco… dato che “certamente non posso essere italiano”. 


Gabriele Perego

3 commenti:

  1. Certamente non siamo yankee. Da noi sono passati (e ci hanno vissuto) spagnoli, francesi e anche turchi (ottomani). Alcuni austriaci (non tdeschi). Non siamo ceramente inglesi o irlandesi. Ecco che possiamo essere spagnoli, turchi o persino colombiani. I realtà quando ci conoscono veramente non possono che identificarci come "italiani"....ciao

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  2. Articolo molto interessante. Partendo dal presupposto che non l'ho molto capito, perché la scrittura è un po' fuori dalla mia portata, vorrei però fare una piccola considerazione.
    Io credo che sia ingiusto (se non addirittura un po' qualunquista), definire l'identità italiana attraverso quelli che sono gli stereotipi radicati tra la gente non-italiana. Comprendo che questa fantomatica identità non è ricavata se non attraverso uno sguardo attento che coglie ogni "piccolo frammento comune in ogni manifestazione dell’essere italiano, qualcosa che ha a che fare con una certa forza e passionalità ma che non si riesce a descrivere". Credo però che se si voglia cercare qualcosa che accomuna gli italiani, bisogna innanzitutto cercare in quella che è la cultura della nazione. Questa affermazione non vorrebbe aver niente a che fare con i vecchi nazionalismi ottocenteschi, che si sa a quali conseguenze storiche hanno portato. Io credo che l'identità, sia qualcosa che funziona grazie ad un principio dinamico, non statico. Non esiste una forma ben definita dell'identità italiana, e non saprei nemmeno dire "cosa" esiste. Però cercare le tracce dell'identità italiana negli stereotipi, per quanto profondo possa essere lo sguardo, mi sembra una operazione abbastanza ottocentesca, con presupposti "ontologici", che anche se si difendono sotto l'egida della "indefinibilità", permangono sempre.
    Spero di essermi fatto capire, e confido in una risposta!
    Saluti!

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  3. Concordo pienamente: infatti qui l'idea di stereotipo è presa in senso molto lato fino al suo eccesso: come tu ben scrivi (quello è il succo), l'idea di identità nazionale non si ricava da appunto stereotipi fissi ma è nella dinamica di aspetti che appaiono come elementi tipici che emerge (evento) un "non so che" identificato come una particolare vitalità.
    Certo che l'identità nazionale è fortemente ibridata dalla cultura nazionale, ma appunto la stessa vitalità specifica, il "sapore" della personalità stessa, deriva appunto da ciò, quindi ve ne è un riflesso.

    La cosa interessante della mia breve esperienza fuori dall'Italia, era il persistere di questi stereotipi, come scrivi tu (mi piace la definizione!), statici; spesso ovviamente nascevano anche discussioni su cosa si pensa di un paese e dell'altro, considerazioni sulle differenze eccetera. Era immancabile però il fatto che in seguito a prescindere dall'aspetto, dal comportamento, dalla fenomenologia degli stereotipi in definitiva, l'identità nazionale veniva fuori, appunto come un evento, singolarità, emergenza al di sopra delle concause (pregiudizi nel senso di precomprensione data da stereotipi).

    Perché poi accadeva a tutti gli italiani di essere riconosciuti come tali tranne che a me... era interessante.

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