Esiste un futuro per i giovani italiani?

venerdì 12 aprile 2013

Le buone notizie come prospettiva di cambiamento



Quando la normalità è data dal male, il bene diventa notizia.

Così si conclude l'articolo Su Internet gli eroi nascosti delle buone notizie di Giangiacomo Schiavi sul Corriere della Sera di oggi, che annuncia la nascita di una nuova rubrica su Corriere.it marcata dall'hashtag #Buonenotizie.
L'obiettivo del Corriere è quello di raccogliere il maggior numero di notizie positive per portare un messaggio positivo, cercando di dare meno spazio agli esempi negativi per accenturare invece il valore delle buone pratiche. Schiavi infatti sottolinea che:
Ci sono in Italia ogni giorno tanti esempi di altruismo e generosità che non compaiono nelle cronache dei giornali o nei siti web: nel mare della crisi si legge soprattutto di drammi e di buchi di bilancio. Abbiamo bisogno di fiducia e di riconoscerci in qualcosa che dia qualche speranza: oltre al buio c'è anche qualche luce. 
Questa iniziativa è indubbiamente condivisibile, anche perché da quando, per lavoro, passo ogni mattina a leggere più giornali, mi ritrovo già verso le 10 con uno spirito adombrato dall'ansia per la crisi economica e la decadenza politica che-se-va-avanti-così-finiremo-come-la-Grecia, dall'angoscia legata alle notizie di cronaca che parlano sempre di omicidi, suicidi, incidenti, drammi e tragedie... e dalla depressione dovuta alla consapevolezza sempre più crescente che la cultura, l'arte e qualunque cosa bella ha sempre meno spazio nelle menti e nei cuori di chi abita in questo Paese.
In sostanza, l'eco di una buona notizia o di una bella iniziativa è come aria fresca nella fitta oscurità che pervade l'informazione giornalistica, dove alla croncana nera si sostituisce troppo spesso la cronaca rosa piuttosto che una notizia positiva.
Vero è che questa decisione presa dal Corriere risveglia in me uno dei ricordi legati al mio attivismo in AmnestyEDU, sezione di Amnesty International, a Milano. In una scuola media avevamo trovato un gruppo di allievi molto promettenti e una professoressa che si era lasciata coinvolgere molto dalla nostra attività. Concluso l'incontro con l'ultimo laboratorio avevo preso in disparte la professoressa e le avevo regalato la mia copia (stampata malamente ma almeno ecofriendly) del testo Attività introduttive e giochi di ruolo all'interno del Percorso didattico contro la discriminazione pensato proprio per la scuola secondaria di primo grado. Le avevo consigliato alcuni laboratori e in particolare il quarto e ultimo laboratorio della sezione Sviluppare l'empatia, che, guarda caso, si chiama proprio Buone notizie. Lo riporto di seguito:
I giornali sono soliti enfatizzare notizie di crimini, ingiustizie e altri fatti che ci creano la
sensazione desolante di un mondo in cui nessuno si interessa o si cura degli altri. Questa
attività vuole far capire ai ragazzi che esistono modi diversi di relazionare con gli altri e una
società in cui “io mi prendo cura” è possibile.
Tempo: 30 minuti
Materiali: Articoli di giornale; Cartellone
Preparazione: La preparazione richiede un impegno di parecchie settimane. I ragazzi dovranno infatti raccogliere articoli da giornali o on-line in cui si raccontino buone notizie: es. il ritrovamento e larestituzione di oggetti di valore, l’impegno di singoli o di associazioni per il proprio quartiere,la propria città ecc.

Svolgimento:
1. I ragazzi incollano su un cartellone da appendere in classe gli articoli che hanno raccolto.
2. Gli articoli sono letti e commentati. Si apre poi una discussione aiutandosi con le domande che seguono:
a. Chi sono i protagonisti degli articoli?
b. È possibile o è difficile agire come loro? Perché?
3. I ragazzi possono continuare a raccogliere le “buone notizie” e riferirle di tanto in tanto ai
compagni
Ancora oggi mi chiedo se quella professoressa abbia seguito il mio suggerimento e iniziato un percorso di questo tipo con i suoi allievi rappresentando, insieme a molte altre, una di quelle buone pratiche che il Corriere potrebbe raccontare nella sua nuova rubrica.

Non sapendo effettivamente come sia andata, mi piace pensare che la professoressa lo abbia fatto.

giovedì 10 gennaio 2013

Piangi due volte



 

Esiste un futuro per i giovani italiani?

È semplice. 
No. No, non esiste. Nella maniera più assoluta. Il futuro in Italia non è per nessuno. 

Il futuro. Ad oggi è una dimensione troppo lontana. È la meta del viaggio degli onesti, il pasto dei sognatori, il salto mortale di giocolieri sorridenti. 

Il nucleo centrale, la domanda vera è chi sono i giovani italiani?

Opportunisti di ritorno da una bella vacanza all’estero, figli nati morti, rivoluzionari timidi, innamorati a metà di una mezza illusione … Questo è il momento di scoprirlo. Il rischio di questa domanda è cadere a piedi uniti nel retorico, rielaborare concetti vecchi come il mondo con parole diverse, oppure addirittura con le stesse. 

Ma vado avanti nonostante tutto e soprattutto nonostante tutti. 

Siamo in bilico tra il suicidio sociale e l’impresa; chi sono i giovani italiani? Dovremmo essere un dannato popolo fastidioso, con infinite teste e un corpo solo. Siamo troppi per accodarci a un magnifico pensiero. 

Non ho tra le mani le istruzioni per essere felici nel futuro. 

So che siamo tanti, so che abbiamo un passato impolverato, ma di quelli che valgono. Andiamo a prenderci il futuro. Chi di corsa, chi con lo zaino in spalla, chi con il quotidiano sotto il braccio, ma tutti nella stessa direzione. 

Siamo i figli di Fellini, Bertolucci, Monicelli, Gaber e Celentano, De Gregori e Dario Fo, Oriana Fallaci, Roberto Benigni, Totò, Troisi. Siamo i figli della cultura popolare, ma non possiamo essere i padri del fumo. 

Non mancano le persone, né le idee, manca una cultura e una moralità. Una sola per tutti. 

Caro Italiano, piangi due volte. Perché hai una grande occasione, una grande terra e nulla da vincere. 

E allora il mio è un invito semplice, votiamo, cambiamo le cose, diventiamo protagonisti del presente. Questo è per noi. Giovani, italiani. Non siamo gli uomini di domani, siamo quelli di oggi. 

Non c’è futuro. Il futuro non esiste. Per nessuno. Possiamo scrivere la storia

Brix95

mercoledì 5 dicembre 2012

Intervista a Alessandro Pedretta Kresta per Negazioni: maledetta fanzine senza paraocchi e paraculi




Chi c'è dietro a Negazioni

AlessandroPedretta Kresta, 37 anni. Schiavo delle piramidi e scrittore suicida.

Tu sei la mente che si trova all’origine della fanzine Negazioni, giunta ora al suo secondo numero, ma prima di parlare di questo vorrei rompere il ghiaccio con una domanda semi-personale. Recentemente hai pubblicato un libro di poesie, questanonèpoesia, ti andrebbe di raccontarcelo, ma, soprattutto di spiegarci il perché di un titolo apparentemente così contraddittorio?

Il titolo nasce per poter dissacrare la poesia come antico veicolo per trasmettere emozioni-fotocopia, la poesia che imperversa in rete o in librettucoli che ci propinano la solita lezioncina su amore, sofferenza, fuori piove e mi sento tanto male. Questanonèpoesia anche perché in questo modo non dissacro solo la poesia che sta altrove ma dissacro e sbeffeggio soprattutto la mia, potenziandola, in questo modo, con  quel messaggio che spero sia il più irriverente possibile. Ma non è solo questo. È anche altro: questanonèpoesia perché vuole uscire da quel sentiero solcato da una miriade di soggetti prostrati a una cultura di massa, una specie di cancro di questa società moderna, dove poesia è ogni cosa, dove arte è ogni cosa, una macchia su un foglio, un presentatore che sorride con la sua dentatura equina in tv, uno stronzo in scatola, la pipa che non è una pipa. È un libro dove i miei umori prendono corpo. Ma poi è così stancante parlare di poesia. Si dovrebbe leggerla, non parlarne. Si dovrebbe viverla.

All’interno del tuo percorso personale come si inserisce Negazioni?

Mi sono sempre piaciute le fanzine autoprodotte di controcultura, anarchiche o di musica hardcore che giravano soprattutto negli anni 80/90 e mi è venuta la stramba idea di proporne una che attaccasse la cultura con un altro tipo, appunto, di cultura – la cosiddetta “sottocultura”. La cultura di certi scrittori underground, di certa musica perlopiù ai bordi, di giovani poeti emergenti o semplici narratori di esperienze accomunati dalla voglia di dire, urlare le proprie sensazioni ma relegati soltanto in piccoli siti web, o su facebook dove ho conosciuto il gruppo col quale produciamo questo virus di letteratura e arte dissacrante.

Com’è nato questo progetto editoriale e quali sono i suoi obiettivi?

È nato, come ho detto, incontrando altri ragazzi dalla stessa indole controculturale, poi aggregatici  in un gruppo facebook. Come ogni cosa anche facebook non è solo alcove di cazzate, di idolatria delle frasi ad effetto a aforismi di scrittori morti anni fa. Ogni sistema lo si può capovolgere e usarlo per propri interessi. Si sceglie e ci si sceglie. Inizialmente l’idea era di produrre una fanzine anche cartacea e distribuirla in posti mirati in giro per l’italia dato che la nostra miserevole e dannata squadra di organizzatori si sviluppa in tutta la penisola. Andreas Finottis dal nord est, Mauro Bellicini Brescia, io e Giuseppe Baldassarra di Varese, Ty Elle da Firenze e lo scrittore profano Giovanni Favazza da Catania, ma per adesso ci accontentiamo di divulgarla solo via web. L’obiettivo penso sia  di diffondere la fanzine a più persone possibili e creare sinergie sempre più vaste con nuovi autori, artisti di nicchia che trovano difficoltà nel proporre le proprie cose. Ve lo assicuro, ci sono tanti giovani che sanno dire o presentare la propria arte meglio di qualsiasi noto e riciclato personaggio di fama.

Che cosa distingue, secondo te, Negazioni dalle altre fanzine che vengono divulgate via web?

La nostra fanzine è basata soprattutto da scritti di giovani e esordienti o comunque poco conosciuti autori. Vuole essere dissacrante ma non cedere nell’emulazione dello scritto “maledetto” che manda affanculo comunque e chiunque catalogandosi in questo modo in un certo target. Noi non vogliamo dare punti fermi, non vogliamo entrare in una categoria, noi, come dice il nome della fanzine, neghiamo anche noi stessi, e neghiamo la stessa negazione. Siamo la negazione al quadrato.

Quali sono le tue aspettative – e in generale quelle delle persone che scrivono su Negazioni – rispetto alla realizzazione di una fanzine simile?

Le aspettative penso siano semplicemente di proporre qualcosa di diverso, che rompa gli schemi ma che non rientri in nessuna corrente preconfezionata. Vogliamo essere molesti ma non stupidi, vogliamo essere stupidi ma non illogici, vogliamo essere illogici e anche colti, completamente idioti e i re dei saggi. Tutto e niente. Non ci sono linee progettuali. Siamo una zona temporaneamente autonoma che muta, si trasforma, non ha un nome, sputa sul nome.

Quali sono i tuoi propositi per il futuro di Negazioni?

Renderla una rivista con spunti sempre diversi, a 360°, con spazi più ampi riguardo a musica relegata in piccoli spazi, arte autoprodotta, far conoscere luoghi dove incontrarsi e divulgare un diverso modo di pensare l’arte, il fare, una lotta contro le direttive mediatiche che ci dicono: questo è bello e buono, questo no.
Questo e altro. Negazioni deve essere una creatura con vita propria, che si fa trascinare dagli istinti, dalle piccole manomissioni a un coacervo di nozioni impartite da un certo potere anche culturale che ci sovrasta.



Per dare un'occhiata a tutti e tre numeri usciti e per entrare in contatto con gli autori della fanzine basta accedere alla pagina facebook di NEGAZIONI maledetta fanzine senza paraocchi e paraculi.

giovedì 29 novembre 2012

Un altro giorno di lavoro



Faceva freddo quel giorno. Marco aspettava alla fermata chiuso nel suo giubbotto e avvolto nella sciarpa. Di sicuro anche quella mattina l’autobus era in ritardo, ma Marco non aveva voglia di togliere le mani dalla tasca per controllare l’orario, tanto quel gesto non avrebbe di certo convinto il bus a fare prima. Quando in passato usciva in motorino arrivava sempre in orario, ma adesso che si era guastato non poteva permettersi di farlo riparare; si ripeteva che forse lo avrebbe fatto in estate, così da potere andare a mare con gli amici, ma sino ad allora avrebbe dovuto adattarsi alla snervante incostanza dei mezzi pubblici.

L’autobus era già pieno quando giunse alla fermata, ma in qualche modo tutti erano riusciti a salire, anche se accalcati gli uni agli altri. A Marco però non dispiaceva. Non solo perché il contatto forzato con gli altri passeggeri lo scaldava, ma perché dentro quel bus si sentiva parte di qualcosa, membro attivo di una comunità produttiva. Ancora non erano le otto, ma le strade erano già piene di macchine, tutta gente che, come i suoi compagni di viaggio, cercava di raggiungere i propri posti di lavoro o di studio. Erano tutti parte di quel flusso che poco dopo l’alba si muove verso il centro per far funzionare la città facendo riaprire scuole, ospedali, banche, uffici postali e negozi.

Quella situazione di intenso traffico e schiacciamento sugli altri passeggeri durò circa mezzora, poi, appena giunse al centro, ad ogni fermata il mezzo aveva iniziato a svuotarsi sino a che anche Marco scese. L’istituto per sordi dove lavorava distava soltanto altri dieci minuti a piedi. Anche se cercava di convincere se stesso che il suo lavoro era importante quanto quello degli altri, dentro di se sentiva che le cose non stavano realmente così. In realtà Marco presso quell’istituto faceva solo uno stage.

Erano passati più di cinque anni da quando si era laureato in Psicologia e da allora non aveva fatto altro che continuare ad accumulare attestati e competenze. Aveva frequentato corsi a pagamento di Psicologia infantile e Pedagogia, aveva imparato il linguaggio dei segni, il codice Braille e fatto già degli stage presso alcuni ospedali. Adesso, dopo molto insistere, era riuscito a farsi assumere come stagista presso la scuola per sordi dove svolgeva il compito di insegnante di sostegno. Anche questa esperienza sarebbe poi stata inserita nel suo curriculum, che da quando si era laureato non aveva smesso di allungarsi e diventava sempre più simile all’interminabile rotolo di carta igienica pubblicizzato in televisione: stessa lunghezza e stessa utilità.

I vicini e gli amici continuavano a chiedergli perché si affaticasse tanto senza mai guadagnare nulla, avrebbe potuto restare a casa o provare a fare qualche altro tipo di lavoro più remunerativo. In realtà i soldi servivano a Marco. Il padre, che lavorava in banca, era morto qualche anno prima e l’intera famiglia oltre al lutto aveva dovuto affrontare anche difficoltà economiche. Marco e sua madre vivevano della piccola pensione che la banca continuava a versare alla famiglia e dei pochi soldi che riusciva a guadagnare la madre facendo piccoli lavori di sartoria per i vicini. Un altro stipendio sarebbe proprio servito.

Marco rispondeva che il suo lavoro in realtà era un investimento, che se avesse fatto vedere quanto valeva forse lo avrebbero assunto e comunque avrebbe acquisito esperienze che lo avrebbero aiutato a farsi prendere presso altre strutture. In realtà però Marco non credeva a tutto ciò; quelle frasi erano come una vuota poesia che ripeteva per giustificare agli altri la sua voglia di lavorare come psicologo. Il vero motivo per il quale si intestardiva a specializzarsi e a fare stage era la profonda convinzione che ognuno deve fare il lavoro che sa fare e per il quale ha le competenze. Aveva studiato tanti anni come trattare coi bambini affetti da problemi e sentiva questa professione come una vocazione che andava seguita nonostante tutti gli ostacoli.

Marco quasi non si era accorto di essere già arrivato e in fretta salì le scale dell’edificio. Il direttore lo rimproverò dicendogli che i ragazzi in aula già lo stavano aspettando e così si affrettò verso la stanza. Come stagista avrebbe dovuto solamente assistere alle lezione dei professori e imparare come comunicare meglio con questi ragazzi, al massimo dando una mano dopo le lezioni a quei studenti più in difficoltà. In realtà spesso era lui ad insegnare nozioni di Psicologia ai professori: nessuno di questi era psicologo, erano solo degli insegnanti che avevano imparato il linguaggio dei segni per via di qualche familiare sordo. Quel giorno, inoltre, come spesso accadeva, doveva sostituire una professoressa malata e tutta la responsabilità della lezione era affidata a lui.

A fine giornata Marco sentì che stava per ammalarsi, forse aveva già un po’ di febbre. Prima di andare via chiese al direttore di poter assentarsi l’indomani, ma costui gli aveva risposto che c’era già Claudia malata e senza di lui proprio non ce l’avrebbero fatta, quindi lo invitò a stringere i denti e ad aspettare l’indomani prima di prendere una decisione che avrebbe costretto i bambini a restare in casa perché non c’era alcun supplente disponibile.

Il giorno seguente Marco stava peggio, aveva la febbre e gli occhi rossi, ma ugualmente si alzò dal letto. I ragazzi sordi e l’intera scuola aveva bisogno di lui; una sua defezione avrebbe causato ripercussioni a catena anche sulle famiglie dei ragazzi che sarebbero stati costretti a casa. La macchina della società può funzionare solo se tutti gli ingranaggi fanno il loro lavoro, e Marco era uno di questi ingranaggi. La stessa costituzione italiana recita nel suo primo articolo che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, anche il suo non retribuito, anche quello invisibile di sua madre.

“Dove vai così malato?”, fece la madre di Marco vedendo il figlio prepararsi ad uscire, rosso in viso e col naso chiuso.

“Vado a lavoro”, rispose.

Michele Protopapas
 

martedì 13 novembre 2012

Sud


 

Qualcuno ha iniziato a farsi –
qualcuno ha smesso –
c’è chi si è laureato ed è andato via –
c’è chi si è laureato ed ha messo i libri di filosofia in soffitta –
altri hanno case e figli da accudire
e un perbenismo crescente da tenere a bada –
ognuno è alla ricerca di un futuro perduto
con rassegnazione,
in solitudine –
Addio alle feste di primavera
ai liquori che scaldano come e più del fuoco
alle risate che riempiono le stanze
La strada che stiamo percorrendo
pare sia troppo stretta per prendersi per mano –
e, come sconosciuti,
ci accingiamo a percorrerla
da soli, ad occhi chiusi, con il cuore a pezzi
e l’anima sottosopra o perduta, chissà dove –
 
 06.12.2010

Maria Caterina Basile

lunedì 5 novembre 2012

Fughe di un cervello



 

Il futuro, e la speranza di un futuro migliore, sono categorie da eliminare; chi lavora per lo scavo interiore, l'approfondimento culturale, la ricerca snervante, non lo fa con la speranza di cambiare le cose. Lo fa forse per un richiamo primordiale ed inestinguibile, rivolto soprattutto a se stesso, con l'incrollabile convinzione non solo che le cose non cambieranno, ma che probabilmente peggioreranno.

Essere efficientissimi, documentatissimi, attentissimi, appassionatissimi, precisissimi, sapendo che non servirà a nulla: questa è l'unica posizione che può assumere un supposto vir probus. E poi cosa dovrebbe cambiare? C'è molta differenza, ad esempio, tra lavorare all'estero e lavorare in Italia? Certo, l'Italia ha le sue città inarrivabili, i centri storici ed i caffè sorridenti, ma l'efficienza narcotica dei paesi nordici ed anglosassoni riesce quasi a farli dimenticare (non ci riesce, ma pazienza... Attenderemo finalmente una crisi, meridionale, di vuoti mezzogiorni assolati ripieni di nulla, finalmente nuovi pomeriggi preadolescenziali dove perdersi nella serietà impossibile di giochi senza fine). Forse deve cambiare la classe politica? Ma il Potere non cambia mai (vedere ad es. la moderna tragedia senza tempo in Un uomo di Oriana Fallaci); anzi semmai diventa sempre più crudele, malvagio, irrazionale ed (auto)distruttivo, solo che si nasconde molto meglio. Questa è la democrazia di oggi, ormai lo sanno anche i sassi; ma non solo in Italia, anche in tutti gli altri Paesi.

E poi chi ricerca vuole sempre l'estremo, e si porta dentro già ab origine la sua malattia, malattia di bellezze pericolose e discorsi, i suoi labirinti e le sue mostruosità; lo stupore nel conoscere il proprio lupo interiore addestra ad essere incredibilmente freddi, consapevoli e lucidi nel trovare ed analizzare le bestie acquattate nell'intrico del mondo; quasi a comprendere la loro malvagità assassina. Chi ricerca e lavora per l'approfondimento, la concentrazione, la conoscenza, sa che la propria forza - come le proprie pericolose traiettorie mentali e sensoriali - rimarrà intatta in qualsiasi situazione, con qualsiasi governo, e che la sua strada, o meglio le sue strade, continueranno a riproporglisi all'infinito, sempre più dense e luminose di cose, sempre più buie di anfratti e sorprese terribili; e che egli continuerà a percorrerle senza guardare in faccia nessuno, caschi il mondo.

Col tempo, si fa anche chiaro che non è più una questione di presunzione, autocompiacimento o complesso di superiorità, ma solo di esigenze personali, di essersi imbarcati verso rotte diverse a seconda delle disposizioni naturali, della spirale genetica, degli odori e dei suoni che si respiravano nelle proprie case d'infanzia, delle esperienze mancate o fatte; neppure una questione di pessimismo, ma solo di visione critica, compenetrata, che nulla concede alle falsità comode. E l'unica speranza che ci si può concedere è di giungere così all'abbandono...

Riccardo Cavalli

giovedì 19 luglio 2012

Intervista a generAzione rivista: "Funamboli, sul filo della precarietà"


 

Chi c'è dietro a generAzione rivista

Iuri Moscardi, 26 anni, della provincia di Brescia ma abito a Milano. Per 3 mesi sarò stagista come correttore di bozze al Corriere della Sera.
Clara Ramazzotti, 24 anni, studentessa di Storia a Milano e ancora incerta su cosa fare davvero.

Abbiamo pensato di intervistarvi perché all’interno del progetto editoriale generAzione rivista avete creato un numero speciale che ha attirato la nostra attenzione. Ma prima di parlare di questo, ci raccontate in breve il vostro magazine?

generAzione rivista è nata a settembre del 2008 dopo il Festivaletteratura di Mantova da un gruppo di ragazzi, tra cui Iuri, uniti dall’aver svolto lo stesso tipo di impegno come volontari durante la settimana del Festival. Questo ha significato vivere insieme e condividere esperienze e anche una certa visione delle cose; dall’entusiasmo di quella settimana è nata la rivista. generAzione è sempre stata online (finora abbiamo stampato solo due numeri) e finora ha prodotto 21 numeri (ognuno basato su un tema scelto insieme da tutti e descritto con racconti, poesie o brevi saggi). Inizialmente eravamo molto ‘impegnati’, scrivevamo sempre con un occhio alla società; crescendo, abbiamo dato spazio anche alla sperimentazione letteraria e a tematiche che sentiamo specifiche del nostro target d’età (20-30 anni), sia come redattori che come lettori. All’inizio facevamo solo la rivista mentre ora abbiamo ampliato la parte online (rubriche e reportage mensili o settimanali), l’uso dei social network, la partecipazione a eventi (l’ultimo il 7 giugno a Milano, al Festival Letteratura Milano) e anche i contatti e le collaborazioni con il mondo editoriale.

Cosa significa per voi generAzione rivista?

È uno spazio per parlare, dire la nostra, ma anche per riflettere e conoscersi, per sviluppare competenze di scrittura e anche per stringere amicizie. Per me e Clara, che la dirigiamo, è anche una sorta di lavoro perché ci occupa parecchie ore della giornata.

L’ultimo numero è stato un numero speciale, che avete chiamato: "Funamboli, sul filo della precarietà". Di che cosa si tratta?

Ognuno dei nostri numeri nasce dalla proposta di un redattore: non ci sono imposizioni gerarchiche.
Forse perché ormai siamo tutti laureati o prossimi alla laurea, in questo caso abbiamo tutti percepito come urgente il tema della precarietà. Da questo è nato il numero. Abbiamo cercato di non limitarci ai luoghi comuni e alle recriminazioni (purtroppo oramai consuete) che spesso si sentono relativamente a questo tema, ma abbiamo cercato – come sempre – di descriverlo a tutto tondo. E infatti il nostro discorso non riguarda solo il lavoro in sé ma proprio una sorta di precaria condizione esistenziale che sembra essere prerogativa della nostra generazione. Ne è nato un numero speciale, dove ci abbiamo tutti messo la faccia descrivendo le nostre particolari situazioni di vita e di lavoro e che tuttavia propone un messaggio se non di speranza almeno di lotta. Il titolo riassume tutto ciò: siamo un po’ come i funamboli, sospesi nel vuoto e privi di certezze.

A partire dal contesto che avete descritto prima, come si inserisce il numero speciale che avete realizzato?

È un numero sicuramente diverso perché non è fatto di racconti o poesie, quindi di “invenzioni”, ma di esperienze vere. Ci sembrava il modo migliore per trattare questo specifico tema. Sono tutti i nostri curriculum vitae in versione allungata, e anche uno sfogo per la frustrazione che, ammettiamo, c’è in questi anni.

Perché avete sentito l’esigenza di trattare proprio di questo tema?

Perché è sicuramente una delle preoccupazioni che ci riguarda più da vicino come persone. È sicuramente l’ostacolo più pesante che ci impedisce di realizzarci e forse è anche la situazione più difficile che, dopo l’Università, ci tocca affrontare. Non è colpa nostra se c’è, ma ci tocca quantomeno farci i conti.

Che aspettative avevate nel realizzare un numero simile?

Volevamo scrivere qualcosa di valido innanzitutto per noi: non tanto confessarci, ma almeno sfogarci o confidare le nostre idee e le nostre aspettative. E poi speriamo di aver scritto qualcosa in cui anche i nostri lettori, soprattutto quelli che vivono la stessa nostra situazione, si ritrovino. Per ogni commento, basta scriverci una mail (generazione@generazionerivista.com) e saremo disponibili al confronto con chiunque. Anche con chi, magari, pensa che esageriamo o che non siamo messi poi così male.

Quali sono i vostri propositi per il futuro? Sia per generAzione rivista, che personalmente (sì, dopo aver letto questo numero ed esserci ritrovati in esso, ebbene, siamo curiosi!).

Per generAzione i propositi sono per natura precari: è un progetto che cresce ma che ci richiede sempre più tempo. Come tanti altri progetti simili, potrebbe chiudere a breve o continuare per decenni, chissà.
Iuri sta cercando una sistemazione lavorativa a Milano: ora ha per tre mesi uno stage, nel frattempo cercherà altro (magari anche un dottorato, chissà). A noi piacerebbe molto lavorare nell’editoria, ecco perché anche generAzione per noi è impegno ed esercizio. Più o meno è come fare uno stage…da 5 anni!



Per entrare in contatto con generAzione rivista:
generazione@generazionerivista.com