Faceva freddo quel giorno.
Marco aspettava alla fermata chiuso nel suo giubbotto e avvolto nella sciarpa.
Di sicuro anche quella mattina l’autobus era in ritardo, ma Marco non aveva
voglia di togliere le mani dalla tasca per controllare l’orario, tanto quel gesto
non avrebbe di certo convinto il bus a fare prima. Quando in passato usciva in
motorino arrivava sempre in orario, ma adesso che si era guastato non poteva
permettersi di farlo riparare; si ripeteva che forse lo avrebbe fatto in
estate, così da potere andare a mare con gli amici, ma sino ad allora avrebbe
dovuto adattarsi alla snervante incostanza dei mezzi pubblici.
L’autobus era già pieno quando
giunse alla fermata, ma in qualche modo tutti erano riusciti a salire, anche se
accalcati gli uni agli altri. A Marco però non dispiaceva. Non solo perché il
contatto forzato con gli altri passeggeri lo scaldava, ma perché dentro quel
bus si sentiva parte di qualcosa, membro attivo di una comunità produttiva.
Ancora non erano le otto, ma le strade erano già piene di macchine, tutta gente
che, come i suoi compagni di viaggio, cercava di raggiungere i propri posti di
lavoro o di studio. Erano tutti parte di quel flusso che poco dopo l’alba si
muove verso il centro per far funzionare la città facendo riaprire scuole,
ospedali, banche, uffici postali e negozi.
Quella situazione di intenso
traffico e schiacciamento sugli altri passeggeri durò circa mezzora, poi,
appena giunse al centro, ad ogni fermata il mezzo aveva iniziato a svuotarsi
sino a che anche Marco scese. L’istituto per sordi dove lavorava distava
soltanto altri dieci minuti a piedi. Anche se cercava di convincere se stesso
che il suo lavoro era importante quanto quello degli altri, dentro di se
sentiva che le cose non stavano realmente così. In realtà Marco presso
quell’istituto faceva solo uno stage.
Erano passati più di cinque anni
da quando si era laureato in Psicologia e da allora non aveva fatto altro che
continuare ad accumulare attestati e competenze. Aveva frequentato corsi a
pagamento di Psicologia infantile e Pedagogia, aveva imparato il linguaggio dei
segni, il codice Braille e fatto già degli stage presso alcuni ospedali.
Adesso, dopo molto insistere, era riuscito a farsi assumere come stagista
presso la scuola per sordi dove svolgeva il compito di insegnante di sostegno.
Anche questa esperienza sarebbe poi stata inserita nel suo curriculum, che da
quando si era laureato non aveva smesso di allungarsi e diventava sempre più
simile all’interminabile rotolo di carta igienica pubblicizzato in televisione:
stessa lunghezza e stessa utilità.
I vicini e gli amici
continuavano a chiedergli perché si affaticasse tanto senza mai guadagnare
nulla, avrebbe potuto restare a casa o provare a fare qualche altro tipo di
lavoro più remunerativo. In realtà i soldi servivano a Marco. Il padre, che
lavorava in banca, era morto qualche anno prima e l’intera famiglia oltre al
lutto aveva dovuto affrontare anche difficoltà economiche. Marco e sua madre
vivevano della piccola pensione che la banca continuava a versare alla famiglia
e dei pochi soldi che riusciva a guadagnare la madre facendo piccoli lavori di
sartoria per i vicini. Un altro stipendio sarebbe proprio servito.
Marco rispondeva che il suo
lavoro in realtà era un investimento, che se avesse fatto vedere quanto valeva
forse lo avrebbero assunto e comunque avrebbe acquisito esperienze che lo
avrebbero aiutato a farsi prendere presso altre strutture. In realtà però Marco
non credeva a tutto ciò; quelle frasi erano come una vuota poesia che ripeteva
per giustificare agli altri la sua voglia di lavorare come psicologo. Il vero
motivo per il quale si intestardiva a specializzarsi e a fare stage era la profonda
convinzione che ognuno deve fare il lavoro che sa fare e per il quale ha le
competenze. Aveva studiato tanti anni come trattare coi bambini affetti da
problemi e sentiva questa professione come una vocazione che andava seguita
nonostante tutti gli ostacoli.
Marco quasi non si era accorto
di essere già arrivato e in fretta salì le scale dell’edificio. Il direttore lo
rimproverò dicendogli che i ragazzi in aula già lo stavano aspettando e così si
affrettò verso la stanza.
Come stagista avrebbe dovuto solamente assistere alle lezione
dei professori e imparare come comunicare meglio con questi ragazzi, al massimo
dando una mano dopo le lezioni a quei studenti più in difficoltà. In realtà
spesso era lui ad insegnare nozioni di Psicologia ai professori: nessuno di
questi era psicologo, erano solo degli insegnanti che avevano imparato il
linguaggio dei segni per via di qualche familiare sordo. Quel giorno, inoltre,
come spesso accadeva, doveva sostituire una professoressa malata e tutta la
responsabilità della lezione era affidata a lui.
A fine giornata Marco sentì che
stava per ammalarsi, forse aveva già un po’ di febbre. Prima di andare via
chiese al direttore di poter assentarsi l’indomani, ma costui gli aveva
risposto che c’era già Claudia malata e senza di lui proprio non ce l’avrebbero
fatta, quindi lo invitò a stringere i denti e ad aspettare l’indomani prima di
prendere una decisione che avrebbe costretto i bambini a restare in casa perché
non c’era alcun supplente disponibile.
Il giorno seguente Marco stava
peggio, aveva la febbre e gli occhi rossi, ma ugualmente si alzò dal letto. I
ragazzi sordi e l’intera scuola aveva bisogno di lui; una sua defezione avrebbe
causato ripercussioni a catena anche sulle famiglie dei ragazzi che sarebbero
stati costretti a casa. La macchina della società può funzionare solo se tutti
gli ingranaggi fanno il loro lavoro, e Marco era uno di questi ingranaggi. La
stessa costituzione italiana recita nel suo primo articolo che l’Italia è una
repubblica fondata sul lavoro, anche il suo non retribuito, anche quello
invisibile di sua madre.
“Dove vai così malato?”, fece
la madre di Marco vedendo il figlio prepararsi ad uscire, rosso in viso e col
naso chiuso.
Michele Protopapas
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