Esiste un futuro per i giovani italiani?

giovedì 29 novembre 2012

Un altro giorno di lavoro



Faceva freddo quel giorno. Marco aspettava alla fermata chiuso nel suo giubbotto e avvolto nella sciarpa. Di sicuro anche quella mattina l’autobus era in ritardo, ma Marco non aveva voglia di togliere le mani dalla tasca per controllare l’orario, tanto quel gesto non avrebbe di certo convinto il bus a fare prima. Quando in passato usciva in motorino arrivava sempre in orario, ma adesso che si era guastato non poteva permettersi di farlo riparare; si ripeteva che forse lo avrebbe fatto in estate, così da potere andare a mare con gli amici, ma sino ad allora avrebbe dovuto adattarsi alla snervante incostanza dei mezzi pubblici.

L’autobus era già pieno quando giunse alla fermata, ma in qualche modo tutti erano riusciti a salire, anche se accalcati gli uni agli altri. A Marco però non dispiaceva. Non solo perché il contatto forzato con gli altri passeggeri lo scaldava, ma perché dentro quel bus si sentiva parte di qualcosa, membro attivo di una comunità produttiva. Ancora non erano le otto, ma le strade erano già piene di macchine, tutta gente che, come i suoi compagni di viaggio, cercava di raggiungere i propri posti di lavoro o di studio. Erano tutti parte di quel flusso che poco dopo l’alba si muove verso il centro per far funzionare la città facendo riaprire scuole, ospedali, banche, uffici postali e negozi.

Quella situazione di intenso traffico e schiacciamento sugli altri passeggeri durò circa mezzora, poi, appena giunse al centro, ad ogni fermata il mezzo aveva iniziato a svuotarsi sino a che anche Marco scese. L’istituto per sordi dove lavorava distava soltanto altri dieci minuti a piedi. Anche se cercava di convincere se stesso che il suo lavoro era importante quanto quello degli altri, dentro di se sentiva che le cose non stavano realmente così. In realtà Marco presso quell’istituto faceva solo uno stage.

Erano passati più di cinque anni da quando si era laureato in Psicologia e da allora non aveva fatto altro che continuare ad accumulare attestati e competenze. Aveva frequentato corsi a pagamento di Psicologia infantile e Pedagogia, aveva imparato il linguaggio dei segni, il codice Braille e fatto già degli stage presso alcuni ospedali. Adesso, dopo molto insistere, era riuscito a farsi assumere come stagista presso la scuola per sordi dove svolgeva il compito di insegnante di sostegno. Anche questa esperienza sarebbe poi stata inserita nel suo curriculum, che da quando si era laureato non aveva smesso di allungarsi e diventava sempre più simile all’interminabile rotolo di carta igienica pubblicizzato in televisione: stessa lunghezza e stessa utilità.

I vicini e gli amici continuavano a chiedergli perché si affaticasse tanto senza mai guadagnare nulla, avrebbe potuto restare a casa o provare a fare qualche altro tipo di lavoro più remunerativo. In realtà i soldi servivano a Marco. Il padre, che lavorava in banca, era morto qualche anno prima e l’intera famiglia oltre al lutto aveva dovuto affrontare anche difficoltà economiche. Marco e sua madre vivevano della piccola pensione che la banca continuava a versare alla famiglia e dei pochi soldi che riusciva a guadagnare la madre facendo piccoli lavori di sartoria per i vicini. Un altro stipendio sarebbe proprio servito.

Marco rispondeva che il suo lavoro in realtà era un investimento, che se avesse fatto vedere quanto valeva forse lo avrebbero assunto e comunque avrebbe acquisito esperienze che lo avrebbero aiutato a farsi prendere presso altre strutture. In realtà però Marco non credeva a tutto ciò; quelle frasi erano come una vuota poesia che ripeteva per giustificare agli altri la sua voglia di lavorare come psicologo. Il vero motivo per il quale si intestardiva a specializzarsi e a fare stage era la profonda convinzione che ognuno deve fare il lavoro che sa fare e per il quale ha le competenze. Aveva studiato tanti anni come trattare coi bambini affetti da problemi e sentiva questa professione come una vocazione che andava seguita nonostante tutti gli ostacoli.

Marco quasi non si era accorto di essere già arrivato e in fretta salì le scale dell’edificio. Il direttore lo rimproverò dicendogli che i ragazzi in aula già lo stavano aspettando e così si affrettò verso la stanza. Come stagista avrebbe dovuto solamente assistere alle lezione dei professori e imparare come comunicare meglio con questi ragazzi, al massimo dando una mano dopo le lezioni a quei studenti più in difficoltà. In realtà spesso era lui ad insegnare nozioni di Psicologia ai professori: nessuno di questi era psicologo, erano solo degli insegnanti che avevano imparato il linguaggio dei segni per via di qualche familiare sordo. Quel giorno, inoltre, come spesso accadeva, doveva sostituire una professoressa malata e tutta la responsabilità della lezione era affidata a lui.

A fine giornata Marco sentì che stava per ammalarsi, forse aveva già un po’ di febbre. Prima di andare via chiese al direttore di poter assentarsi l’indomani, ma costui gli aveva risposto che c’era già Claudia malata e senza di lui proprio non ce l’avrebbero fatta, quindi lo invitò a stringere i denti e ad aspettare l’indomani prima di prendere una decisione che avrebbe costretto i bambini a restare in casa perché non c’era alcun supplente disponibile.

Il giorno seguente Marco stava peggio, aveva la febbre e gli occhi rossi, ma ugualmente si alzò dal letto. I ragazzi sordi e l’intera scuola aveva bisogno di lui; una sua defezione avrebbe causato ripercussioni a catena anche sulle famiglie dei ragazzi che sarebbero stati costretti a casa. La macchina della società può funzionare solo se tutti gli ingranaggi fanno il loro lavoro, e Marco era uno di questi ingranaggi. La stessa costituzione italiana recita nel suo primo articolo che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, anche il suo non retribuito, anche quello invisibile di sua madre.

“Dove vai così malato?”, fece la madre di Marco vedendo il figlio prepararsi ad uscire, rosso in viso e col naso chiuso.

“Vado a lavoro”, rispose.

Michele Protopapas
 

martedì 13 novembre 2012

Sud


 

Qualcuno ha iniziato a farsi –
qualcuno ha smesso –
c’è chi si è laureato ed è andato via –
c’è chi si è laureato ed ha messo i libri di filosofia in soffitta –
altri hanno case e figli da accudire
e un perbenismo crescente da tenere a bada –
ognuno è alla ricerca di un futuro perduto
con rassegnazione,
in solitudine –
Addio alle feste di primavera
ai liquori che scaldano come e più del fuoco
alle risate che riempiono le stanze
La strada che stiamo percorrendo
pare sia troppo stretta per prendersi per mano –
e, come sconosciuti,
ci accingiamo a percorrerla
da soli, ad occhi chiusi, con il cuore a pezzi
e l’anima sottosopra o perduta, chissà dove –
 
 06.12.2010

Maria Caterina Basile

lunedì 5 novembre 2012

Fughe di un cervello



 

Il futuro, e la speranza di un futuro migliore, sono categorie da eliminare; chi lavora per lo scavo interiore, l'approfondimento culturale, la ricerca snervante, non lo fa con la speranza di cambiare le cose. Lo fa forse per un richiamo primordiale ed inestinguibile, rivolto soprattutto a se stesso, con l'incrollabile convinzione non solo che le cose non cambieranno, ma che probabilmente peggioreranno.

Essere efficientissimi, documentatissimi, attentissimi, appassionatissimi, precisissimi, sapendo che non servirà a nulla: questa è l'unica posizione che può assumere un supposto vir probus. E poi cosa dovrebbe cambiare? C'è molta differenza, ad esempio, tra lavorare all'estero e lavorare in Italia? Certo, l'Italia ha le sue città inarrivabili, i centri storici ed i caffè sorridenti, ma l'efficienza narcotica dei paesi nordici ed anglosassoni riesce quasi a farli dimenticare (non ci riesce, ma pazienza... Attenderemo finalmente una crisi, meridionale, di vuoti mezzogiorni assolati ripieni di nulla, finalmente nuovi pomeriggi preadolescenziali dove perdersi nella serietà impossibile di giochi senza fine). Forse deve cambiare la classe politica? Ma il Potere non cambia mai (vedere ad es. la moderna tragedia senza tempo in Un uomo di Oriana Fallaci); anzi semmai diventa sempre più crudele, malvagio, irrazionale ed (auto)distruttivo, solo che si nasconde molto meglio. Questa è la democrazia di oggi, ormai lo sanno anche i sassi; ma non solo in Italia, anche in tutti gli altri Paesi.

E poi chi ricerca vuole sempre l'estremo, e si porta dentro già ab origine la sua malattia, malattia di bellezze pericolose e discorsi, i suoi labirinti e le sue mostruosità; lo stupore nel conoscere il proprio lupo interiore addestra ad essere incredibilmente freddi, consapevoli e lucidi nel trovare ed analizzare le bestie acquattate nell'intrico del mondo; quasi a comprendere la loro malvagità assassina. Chi ricerca e lavora per l'approfondimento, la concentrazione, la conoscenza, sa che la propria forza - come le proprie pericolose traiettorie mentali e sensoriali - rimarrà intatta in qualsiasi situazione, con qualsiasi governo, e che la sua strada, o meglio le sue strade, continueranno a riproporglisi all'infinito, sempre più dense e luminose di cose, sempre più buie di anfratti e sorprese terribili; e che egli continuerà a percorrerle senza guardare in faccia nessuno, caschi il mondo.

Col tempo, si fa anche chiaro che non è più una questione di presunzione, autocompiacimento o complesso di superiorità, ma solo di esigenze personali, di essersi imbarcati verso rotte diverse a seconda delle disposizioni naturali, della spirale genetica, degli odori e dei suoni che si respiravano nelle proprie case d'infanzia, delle esperienze mancate o fatte; neppure una questione di pessimismo, ma solo di visione critica, compenetrata, che nulla concede alle falsità comode. E l'unica speranza che ci si può concedere è di giungere così all'abbandono...

Riccardo Cavalli