Esiste un futuro per i giovani italiani?

sabato 26 marzo 2011

Una vita spesa

È difficile parlare del lavoro pur non avendone mai fatto parte. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare cantano gli Skiantos, che un bel giorno hanno detto no alla fresa e sì alla chitarra. Vantandosene.
Il lavoro nobilita l’uomo, diceva un tale che magari zappava le sue dieci ore al giorno, ma che evidentemente non stava arando mentre pronunciava queste parole; e meno male che nella sua epoca non esisteva la barbarie del copyright, altrimenti non potremmo nemmeno citarlo aver prima rimborsato la SIAE.
Espedienti retorici a parte, e tralasciando pure banalità come “è lo spirito con cui si fa qualcosa che la rende utile o meno”, con la presente affermiamo che il lavoro fa paura quando diventa un hobby come un altro, e proprio per questo un semplice e intercambiabile passatempo.
Avete presente le vecchine tanto pie, che conoscono le preghiere più rare, recitate mentre affollano le panche di una chiesa di paese? Sì, proprio loro, quelle che di fronte a delle domande, risponderebbero che sì, credono senza esitazione nel loro Dio che si manifesta attraverso la Chiesa Cattolica, nelle messe sia della domenica che dei giorni feriali, nelle tonache e nei crocefissi in un edificio pubblico.
Ora, immaginate che nel nostro paese si veneri invece Ra, il Dio-sole degli antichi Egizi: le vedreste ogni giorno in pareo a fare bagni di luce, e al posto di Caravaggio andrebbero in pellegrinaggio alle Canarie, per poterlo venerare anche  il 25 di gennaio. Con identica, saldissima convinzione, pur essendo quelle stesse persone che, in questa dimensione, rispettano con zelo i Dieci Comandamenti.
E se anche il lavoro fosse così?
Prendete una persona, allevatela nel culto di una società fondata sul lavoro, insegnatele che i poliziotti di qualche telefilm sono dei fighi pazzeschi, anche se nella professione reale non smascherano un Arsenio Lupin al giorno ma piuttosto svolgono incarichi non esattamente gratificanti, così fino alla pensione ed al meritato paradiso. Oppure prendete la stessa persona, magari più cresciuta, e sbattetela a pinzare fotocopie per tutto il giorno, a compilare pratiche di dubbio interesse o a fabbricare autoveicoli che qualcun altro guiderà. Fategli questo, e ditegli che è bene non solo per gli altri, ma perfino e sopratutto per se stessi. Mettetela di fronte a questo, senza alternative di sorta.
Creategli il deserto attorno, in modo che il lavoro appaia come l’unica oasi possibile, ponetelo di fronte all’opzione a) senza che vi sia una b). Alla fine cosa sceglierà?
Può invece darsi che, per banalissima e inattaccabile accidia, avrà semplicemente optato per il lavoro più comodamente raggiungibile, lo stipendio più sicuro, quando magari la suddetta persona aveva un discreto talento per la matematica. Ma, per mancanza di stimolo  allo studio o per assenza di possibile retta universitaria, finisce per trovarsi un impiego da piastrellista infelice.
Prendete altrimenti una ragazza [par condicio, ndr], non offritele particolari svaghi ma “solo” una possibile, futura carriera lavorativa da assicurarsi grazie a una seria e solida, preparazione-universitaria-necessaria-per-il-futuro. Non meravigliatevi se finisce per parlare ininterrottamente di esami anche il sabato sera.
Per cosa? Lavorerà, o studierà per farlo, semplicemente perché gli mancano alternative, o anche solo la voglia di cercarsele, queste benedette alternative. Oppure svolgerà compiti lontanissimi dalle sue reali inclinazioni, perché possedeva requisiti economici o di voglia per sviluppare la sua predisposizione per la matematica. O perché, con l’agognato e odiato impiego, si è banalmente trovato/a ad averci a che fare, e per quieto vivere l’ha scelto, arrivando infine a lavorare per pigrizia. Mannò, come può essere pigro chi si sbatte in ufficio anche dodici ore al giorno?
Forse lo stakanovista più incallito è semplicemente l’immagine speculare, e quindi gemella, di un disoccupato volontario.
Finisce così che labor, fatica, diventa sinonimo di niente-di-meglio-da-fare, o scambiare stelle per lampioni. Il problema non è tanto essere tutti Superman, ma sentirsi realizzati anche da Medioman.

Silvio


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