Esiste un futuro per i giovani italiani?

martedì 21 febbraio 2012

Appello ai privilegiati


Che rabbia, che tristezza.
Sarà che sono stata fortunata, sarà che sono cresciuta in un ambiente che dopo oggi mi appare ancora più elitario, sarà che i miei genitori – nonostante tutto – mi hanno sempre sostenuta e insegnato tutto quello che sanno (e sanno tanto), ma dopo un’esperienza recente mi porto dentro una nuova amarezza nel cuore, un'amarezza che credo nei prossimi mesi si  acutizzerà costantemente.
Qualche giorno fa sono andata in un istituto professionale con Amnesty EDU, una sezione di Amnesty International che ha come obiettivo la formazione di studenti di tutte le età (scuole elementari, medie e superiori) e di tutte le tipologie di scuole (licei, tecnici, professionali) circa il tema dei diritti umani. Il fine di Amnesty è quello di sensibilizzare bambini e ragazzi a quei problemi e temi che in una società multiculturale e complessa come la nostra affrontano tutti i giorni, ma che spesso non trovano purtroppo un’adeguata trattazione nelle aule scolastiche.
Con questo progetto e con questi obiettivi siamo andati a parlare alle prime classi di un istituto professionale che si trova nella provincia di Milano. L’ambiente era degradante: i resti delle merende erano ovunque, le aule erano tristi e arricchite solo da pochi cartelloni realizzati per la scuola e qualche divo del cinema, i professori abituati a comunicare solo con minacce ed urla.
La presentazione che realizziamo per Amnesty è più che altro un dialogo fatto di continue domande volte a stimolare la comunicazione e a mantenere sveglio l’interesse degli studenti. Nello svolgersi di questo percorso interattivo si sono manifestati diversi momenti piuttosto sconfortanti. Gli studenti invitati a leggere alcune parti si inceppavano nelle parole, non comprendevano il senso delle frasi. Le risposte alle domande erano sconclusionate, dettate poco dalla logica, ma più dal desiderio di far sentire la propria voce. La soglia di attenzione era al livello di quella di un pesce rosso e la possibilità di mantenerla più alta era decisamente scarsa, nonostante l’utilizzo di diverse tecniche di comunicazione molto rodate. Della capacità critica che hanno dimostrato invece meglio proprio non parlarne.
Eppure non è tutto questo ciò che mi ha sconvolta, bensì quello che più mi ha stupita è stato il fatto che in quella scuola ho trovato tanta rassegnazione. Quello che mi ha lasciata senza parole – me, figlia di laureati, proveniente da un liceo scientifico e prossima alla laurea magistrale – è stata l’amara consapevolezza dei ragazzi circa la propria ignoranza, il loro essere senza possibilità di cambiare le cose, senza chances a causa proprio del livello della scuola che frequentano, ma ancora di più senza futuro e senza libertà di scelta.
Ma perché?!” avrei voluto gridare loro “perché questa rassegnazione? Voi che siete così giovani? Il futuro del domani… Voi che siete solo all’inizio del vostro percorso, voi che ancora tutto potete scegliere, inventare, scoprire, vincere, …”.
Ma il fiato per queste parole mi è rimasto in gola.
Ho scelto infatti la via di Amnesty, ho seguito i suoi principi e ho deciso di informarli il meglio possibile su quei diritti che li riguardano – che ci riguardano tutti – e di cui forse non avrebbero più avuto occasione di sentir parlare. 
Allora gli ho raccontato la storia della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nati dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale dal desiderio di cambiare dell’uomo, di porre delle solide basi per impedire quei gesti orrendi legati alla guerra. Gli ho spiegato che quello del lavoro è un loro diritto non meno del diritto al riposo. Ho cercato di fargli capire che il diritto all’istruzione non è rispettato ovunque, perché molti bambini e ragazzi nel mondo non possono studiare a causa della loro povertà[1].
In conclusione, non so però se i miei discorsi possano aver sortito anche solo un minimo effetto; di certo io mi sono impegnata al massimo, ma purtroppo la mia ha rappresentato solo una piccola goccia nel mare.
Dovremmo piuttosto tutti noi – noi privilegiati – porci una domanda, ovvero: perché permettiamo che ragazzi così giovani che provengono da situazioni familiari e ambientali evidentemente problematiche abbiano una così scarsa considerazione di sé e di tutto quello che fanno e faranno?
Se non ci impegniamo in primis per far sì che tutti, ma proprio tutti (e qui intendo soprattutto coloro che si trovano in situazioni di disagio), in Italia portino in sé delle speranze positive per il domani che si traducano poi in un futuro altrettanto positivo non possiamo lasciare che si sviluppi una società classista e elitista che permetta tutto questo. Dobbiamo batterci perché tutti si rendano conto di possedere gli stessi diritti e le stesse possibilità degli altri, lo stesso grado di libertà di esprimersi, pensare ed informarsi.
E, badiamo bene, siamo noi che dobbiamo fare la differenza, perché nessuno lo farà per noi.

[1] Quest’ultima sollecitazione aiutata da un video molto forte ha portato alla seguente conclusione da parte di alcuni dei ragazzi: “Noi abbiamo la possibilità di studiare siamo dei privilegiati, ma non lo capiamo”.
IIl video di cui parlo narra la storia di una bambina marocchina che ha il grande desiderio di diventare medico e pertanto frequenta la scuola con impegno e dedizione. Il filmato si incentra sulla decisione dei suoi genitori di tenerla a casa da scuola perché la madre ha bisogno di aiuto in casa. Questo video colpisce molto i ragazzi, pur essendo in arabo sottotitolato in italiano, ed è un’ottima fonte per diversi temi di discussione (diritto all’istruzione, situazione delle donne, tema della povertà, …).

10 commenti:

  1. Non ho potuto fare a meno di percepire un certo senso di colpa infiltrarsi tra le tue parole, come se ti ritenessi in parte responsabile di questo sfacelo educativo.

    Scusa la mia malalingua.

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    1. Certo che si percepisce "un certo senso di colpa", e dovremmo averlo tutti questo senso di colpa, perchè abbiamo permesso che la scuola decadesse così in questi ultimi vent'anni, abbiamo rinunciato a difendere i nostri diritti, ci siamo divertiti a lasciar fare. Il risultato è questo e glielo regaliamo ai più giovani, specialmente a quelli in difficoltà.

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  2. Silvio, nel vivere quello che ho vissuto i miei sentimenti sono stati duplici.
    Da un lato ho provato una grande amarezza e compassione nei confronti di questi ragazzi e poi, sì, un certo senso di colpa, ma un po' particolare.
    Non quello del commento precedente il mio, perché io di anni ne ho poco più di 20 e non posso sentirmi responsabile di decisioni che non ho preso perché non le ho potute prendere, piuttosto io mi sento un po' in colpa per la fortuna che ho avuto di crescere in una famiglia di persone intelligenti, dotate di senso critico e di una mentalità aperta, senza problemi finanziari o familiari.
    Credo per questo che l'unico modo per vincere questo "particolare" senso di colpa sia quello di attivarsi perché noi - noi che comprendiamo la realtà, che sappiamo, che siamo consapevoli, che abbiamo le possibilità - non possiamo restare in silenzio e fare finta di niente. E questo perché, come cerchiamo di trasmettere anche nelle scuole con Amnesty attraverso le parole di Martin Luther King: “Può ben accadere che questa generazione dovrà pentirsi non soltanto per le parole avvelenate e le azioni violente delle persone cattive, ma per l’impressionante silenzio e l’indifferenza delle persone buone.”

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    1. Se ho capito bene, più che di senso di colpa sarebbe più opportuno parlare di senso di responsabilità?

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    2. Diciamo che da senso di colpa è meglio se si trasforma in un senso di responsabilità, sicuramente. :)

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  3. Condivido pienamente l'amarezza di Fo Elettrica. Ho purtroppo fatto anch'io esperienza di questa rassegnazione serpeggiante tra gli adolescenti/giovani che ho incontrato e incontro tutt'ora. Quello che mi spaventa di più è che spesso mi è capitato di coglierla in ragazzi a cui non manca davvero niente, che potrebbero benissimo essere considerati dei "privilegiati" ma che non sono consapevoli di questo privilegio oppure lo sono ma se ne fregano e che di conseguenza preferiscono vivere alla giornata, senza un minimo di progettualità o di impegno concreto in quello che quanto meno sono chiamati a fare. Provo un forte senso di impotenza di fronte a ciò, ma che non voglio si trasformi in arrendevolezza.
    Allora mi chiedo (e vi chiedo) cosa davvero posso/possiamo fare nel mio piccolo per porre un freno a tutto ciò? Come far capir loro che "la vita è bella" e che grazie alle loro capacità e potenzialità può diventare ancora più bella e ricca?

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    1. Troveremo un modo se continueremo a mettere in luce situazioni difficili e a pensare alle soluzioni possibili.
      Ma soprattutto dobbiamo anche sottolineare cosa c'è di bello, di buono, di costruttivo nella realtà che ci circonda. Cercare di trasmettere che esistono anche situazioni molto positive, giovani che si impegnano per gli altri, che lottano per un ideale. Chissà che non possano essere d'esempio per i meno consapevoli del valore delle proprie energie.

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  4. Ma siamo davvero sicuri di essere "noi che comprendiamo la realtà, che sappiamo, che siamo consapevoli"?

    Forse se la smettessimo (e mi ci metto in primis io!) di pensare che la nostra visione della realtà sia quella giusta e la loro no, forse le cose inizierebbero a cambiare.

    Forse sono loro che possono insegnare a noi, e non il contrario :)

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    1. Credo di non essermi spiegata bene se fai una simile osservazione, forse l'articolo stesso non era abbastanza eloquente da questo punto di vista.
      Comunque il problema non è il fatto che non ci possano insegnare niente, quello ovviamente sì, e nemmeno sulla questione di giusto e sbagliato per come tu la poni.
      Non si parla di un modo di conoscere il mondo giusto o sbagliato ma del modo in cui vedono il mondo, ovvero con rassegnazione, del fatto che loro vedono il loro futuro senza speranza a soli 15 anni.
      L'ho scritto nell'articolo: non è la loro ignoranza, la loro assenza di senso critico, la loro difficoltà a leggere due frasi di fila in italiano ciò che più mi hanno scioccata, ma la loro consapevolezza di tutto questo sommata all'assenza di speranza nel cambiamento.
      E solo qui si può parlare di giustizia secondo me: ti sembra giusto questo? Che vedano il mondo in questo modo?
      Non è forse un'ingiustizia che si vedano così denigrati solo perché studiano per fare le estetiste o gli aiuto chef? Non è un lavoro dignitoso anche quello? Non si guadagneranno il loro pane onestamente come tutti (e anche più di altri)?
      Finché loro non avranno fiducia in se stessi e nelle loro capacità noi non possiamo semplicemente lasciare che continuino a "pensarla così". Questo sì che è ingiusto.

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  5. Esposta così fa tutto un altro effetto. C'hai ragione!

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