Esiste un futuro per i giovani italiani?

sabato 5 marzo 2011

Anestesia locale

“Il guaio è che sono troppo cinica. Non ci credo più. Non mi fido, è tutta una grande menzogna”
“No, tu non sei cinica. Sei solo terrorizzata”

Amori moderni. Modernità dell’amore. L’amore figlio dello scetticismo sentimentale, e della sua degenerazione, il cinismo. Da ogni parte ci arrivano input che suggerirebbero che l’amore non esiste, o che, come il suo analogo religioso (Dio), è morto. Ma un saggio un po’ svitato e privo di tempismo aggiungeva a questa profetica verità un corollario non indifferente: l’abbiamo ucciso noi. Abbiamo ucciso l’amore. Quando è difficile dirlo. E lo uccidiamo quotidianamente, con ostentate frasi di circostanza, pacche sulle spalle troppo sonore per essere vere, con la rassegnazione, con risate amare di fronte a manifestazioni di affetto e attribuendo questo concetto, ormai estraneo, all’animale, al bambino, al folle, al primitivo, cioè a tutte quelle dimensioni vitali che poco, secondo noi, hanno a che vedere con la sana razionalità. Forse siamo troppo immersi in una cultura che ci impedisce di vedere e di abbracciare anche altre dimensioni dell’umano. O forse non vogliamo vedere. Non vogliamo abbracciare. Forse siamo tutti, o molti, per davvero troppo terrorizzati. Ma da cosa? Perché l’amore fa paura a tal punto da rinnegarlo, da volerci anestetizzare, immunizzare? Una risposta credo possa essere questa: perché l’amore mette in questione la nostra identità e la nostra dignità. Chi ama è in pericolo: “la persona amata acquista un potere enorme su di me, e la mia vulnerabilità è direttamente proporzionale alla profondità del mio amore”(Galimberti, “Le cose dell’amore”). Da un lato, nei confronti dell’oggetto del desiderio scatta un meccanismo di dipendenza, che viene percepito come lesivo della propria dignità. In fondo, vorremmo tutti appartenere alla categoria dell’uomo/donna che non deve chiedere mai. Perché chiedere è impegnativo, implica la messa a nudo di un desiderio, di una debolezza che potrebbe essere usata contro di noi.  Dall’altro lato, è la nostra stessa identità ad essere in pericolo nel momento in cui si ama, perché amare è distrazione da sé: l’io non è più autonomo, acquista un nuovo significato a partire dalla presenza nel proprio orizzonte di un altro, non come semplice presenza aggiunta, ma come presenza che inquieta, questiona, rimette in discussione gli assetti preesistenti. Decidere di amare, se queste sono le reali implicazioni, è come decidere di saltare nel vuoto, un bungee-jumping senza filo. È un suicidio. Ma siamo davvero così sicuri che queste siano le premesse reali? Non c’è il rischio che queste premesse siano il frutto di un modo, non dico errato, ma almeno storicamente e culturalmente condizionato di concepire la soggettività? Sì, gli amici filosofi l’avranno capito, ce l’ho con il solito Descartes. Perché se partiamo da un modello antropologico in cui ci sono un soggetto e un oggetto drasticamente eterogenei, una soggettività che è se stessa nella sua solitudine, e una razionalità che si esercita “more geometrico” allora sì, siamo fregati. Non è mia intenzione proporre un modello antropologico alternativo, mi limito ad alcune considerazioni pratiche. Io non mi sento meno umana quando curo il mio gatto, faccio la baby-sitter o cucino, di quando leggo Heidegger o organizzo meticolosamente la mia giornata in modo da essere il più efficiente possibile. Forse la razionalità non risiede solo in un calcolo utilitario, dei pro e contro della vita, nel controllare meticolosamente ogni pensiero, ogni emozione in modo che tutto funzioni più efficientemente e senza rischi collaterali. Ci crediamo razionali così facendo, ma in realtà siamo in preda alla più forte irrazionalità: il delirio di onnipotenza dell’intelletto. Forse la fiducia che non concediamo agli altri è la fiducia che non concederemmo mai  a noi stessi, le menzogne che leggiamo nell’altro sono le nostre stesse menzogne, non tanto quelle che raccontiamo, ma quelle che ci raccontiamo, tutti i giorni, tutte le notti, tentando di stordirci, di anestetizzarci dal dolore, o dalla sua sola possibilità. La cultura dell’analgesico. Castriamo le nostre menti, i nostri cuori, ci amputiamo libbre di vita come fosse carne da macello. E pretendiamo di star bene. Ci stupiamo della nostra solitudine, di cui raramente abbiamo il coraggio di assumerci la responsabilità. Viviamo di se e di ma: “ma se lui/lei fosse stato più presente, mi avesse capito, mi avesse domandato …” . E tu? Cosa hai fatto? Certo si vivrebbe meglio se il dolore non esistesse, se i rapporti umani, se amare non comportasse il rischio di un non ritorno, che ciò che si da sia a fondo perduto. Ma non si vive con i se. Si vive nonostante (come dice Gramellini nel suo ultimo libro). Anzi, io direi quasi: a maggior ragione.
Chiediamoci solo: quanta felicità sacrifichiamo in cambio di una neutra e apatica sicurezza?

Rachele

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