“Quel corpo nudo è parso indecente;
così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela
nella sua nudità giovane e già sfiorita;
questa figlia del nostro tempo, che incontrate sui marciapiedi, con le magre spalle
strette in no scialletto di lana stinta”
E. Zola, Manet, 1867
Poco importa che Olympia sia stata una escort ante litteram (come al tempo si era ipotizzato), o, parafrasando Edith Piaf, “un’ombra della strada”. Olympia è lì, distesa sui suoi drappi bianchi che si stagliano, come il suo incarnato, su uno sfondo nero, violento. E ci guarda. Rigida, noncurante, assente. Venere moderna, fece la sua apparizione in pubblico al Salon del 1865. Non la rifiutarono, la umiliarono. Napoleone III, si dice, scoccò addirittura una frustata al dipinto. Scandaloso moralmente, fu etichettato. E perché?
Il nudo era una genere praticato fin dall’antichità e le veneri a cui lo stesso Manet si era ispirato (la Venere di Urbino di Tiziano, la Maya Desnuda di Goya) non erano certo meno “nude”. Cos’ha il corpo di Olympia che disturba tanto l’osservatore benpensante? Tante sono state le ipotesi. Anzitutto, il problema non pare essere tanto contenutistico (il nudo in sé), quanto formale: è l’interpretazione che Manet dà del tema ad essere problematica. Manet attualizza, cala nella realtà, nella quotidianità. Umanizza. Olympia non è una dea, è una donna, come ce ne sono tante, e anche abbastanza brutta (dicono alcuni). E’ una donna che non solo mostra senza particolari pudori il suo corpo, anche nelle sue imperfezioni, ma lo fa con estrema libertà e, perché no, anche con una certa qual dose di malizia e vanità. A questo va aggiunto il dato tecnico-estetico: “tinte piatte, grande pittura alla giapponese” (Foucault, La pittura di Manet) e la grossa questione riguardante l’illuminazione.
Ma perché la nudità, la corporeità, la sensualità sono fantasmi? Perché un corpo nudo può imbarazzare a tal punto, se privato di idealizzazione? “Come è possibile, se è possibile, guardare e rappresentare- certo, senza alcuna volontà di abbellire o perfezionare, ma anche senza alcuna curiosità frivola e senza la fissità della concupiscenza che così spesso indugia sugli spettacoli crudeli e sulle imperfezioni- la nudità?”. Clark Kenneth, parlando di alcune acqueforti raffiguranti nudi femminili di Rembrandt, scrive: “Che cosa aveva in mente quando sentì il bisogno di effigiare quel penoso spettacolo della nudità umana? Innanzi tutto, senza dubbio, una specie di onestà ribelle. […] un altro impulso lo aveva spinto a fare quelle acqueforti: la pietà. Per Rembrandt, il grande interprete della Cristianità biblica, la bruttezza, la povertà e le altre disgrazie della nostra vita fisica non erano assurde, ma inevitabili; forse egli le avrebbe definite naturali e capaci di accogliere la luce dello spirito perché svuotate di ogni orgoglio”.
Forse è a questo sguardo, di pietà, che Manet invita l’osservatore. Pietà svuotata di orgoglio, pietà come capacità di avere a che fare con l’”altro”, ciò che è escluso, ciò che è rimosso, ciò che non si vuole vedere, ma c’è. E va guardato con grazia, senza ipoteche, va accolto nella sua alterità, in cui comunque siamo inesplicabilmente implicati. La sua esclusione, il volgere lo sguardo ad altro, per non vedere, dice di uno sguardo che non solo non vuole vedere, ma non vuole vedersi. Non vuole vedersi e non vuole farsi vedere. Guardare quel corpo, è guardare il proprio corpo. Accettare quel corpo, è accettare il proprio corpo. Con grazia, senza orgoglio.
Impariamo ad usare a Olympia la pietà che dovremmo usare a noi stessi.
Rachele
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