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sabato 5 marzo 2011

Voce

Si sa che il blues ed il jazz sono "musica del corpo", degli istinti naturali, almeno se si vedono questi generi nel loro formarsi come sottofondo di bordelli, di bettole, come lamento di negri che avevano venduto l'anima al diavolo e si aggiravano incapaci di trovare pace tra alcool e donne nei territori del Delta.
Si può dire che Bobby McFerrin faccia anche e soprattutto blues, e jazz. E forse c'è un legame tra l'universo corporale che questi generi sottendono e la specialissima tecnica che il cantante afroamericano ha sviluppato: egli, ormai da 20 anni, si esibisce da solo, utilizzando unicamente la sua voce, al massimo  accompagnata dal suono della mano che ritmicamente batte sul petto per tenere il tempo. Gran parte dei suoi live sono completamente improvvisati e costruiti sull'interazione col pubblico. Un modo di fare musica così innovativo eppure così antico, soprattutto un modo così affascinante di concepire il corpo, come una cassa di risonanza, un oggetto sonoro, il primo, il più importante, il più profondo. Saperlo muovere, conoscerne le armonie, i battiti e farli suonare, giocare insieme, questo non è solamente l'esercizio interessante e un po' ridicolo di un ometto nero in dreadlock; è un invito, l'espressione di uno stato di grazia e la volontà di comunicarlo, di condividerlo.
Abbiamo una voce che utilizziamo dalla nascita, prima lallando, nella fase in cui ancora non esiste quasi sillabazione, figuriamoci articolazione, figuriamoci parole; poi educandola, o meglio costringendola, nella corrosiva ed inevitabile – come tutte le abitudini – esposizione giornaliera alla lingua, che ci sagoma e ci incanala; e di lì sviluppando con una raffinatezza crescente la capacità di esprimerci verbalmente. Il corpo rimane, negli accenti e nelle intonazioni, nei gesti, in tutti quegli elementi che si chiamano di solito para- o extra-linguistici; ma sembra per l'appunto relegato nelle zone marginali. Credo che dimentichiamo troppo spesso le infinite possibilità comunicative che rimangono accanto – al di qua o al di là, non fa differenza – della lingua o linguaggio che dir si voglia. Mi piace "vedere" la voce come lo strumento grazie a cui corpo e mente sono saldati, intrecciati e finalmente non più disgiungibili nell'azzeramento della parola, nell'assenza di un sistema referenziale, concettuale: quando, cioè, la voce può e sa muoversi non verbalmente, senza la lingua, in versi, canto, respiro, battiti, melodie, sibili, schiocchi, pulsazioni che vengono dal corpo e del corpo raccontano, ma (e perché ma?) contemporaneamente trasmettono uno stato emotivo, una sensazione, un universo interiore.
Conoscere se stessi potrebbe voler dire sapere fare di se stessi musica, o sapere conoscere la musica corporale che abbiamo dentro? Allora forse quando ad esempio il vecchio Bobby consiglia a chi ascolta una canzone con gli auricolari per la strada: "instead of putting it on your walkman, just sing it to yourself" ("I'm my own walkman", sesta traccia del fondamentale "The voice", 1982), ciò potrebbe significare qualcosa come "supera i limiti della lingua, supera gli ostacoli che hai dentro di te, libera il tuo corpo nella felicità sorgiva di batterlo e di farlo risuonare". Avrebbe qualcosa da dire in proposito anche il greco combattente Demetrio Stratos, che all'attivismo politico radicale associava e – vorrei dire – anteponeva la ricerca sulla propria voce, sui "limiti del linguaggio" come diceva lui stesso; sostenendo inoltre che i suoi straordinari risultati in questo campo (documentati da dischi come "Cantare la voce" o "Metrodora", dove possiamo ascoltarlo produrre diplo-, triplo- e quadri-fonie), sarebbero stati anche alla portata della gente comune, che ne avrebbe vieppiù tratto giovamento.
D'altra parte, se l'oriente soprattutto taoista appare, almeno a me, così interessante e ricco di stimoli, è anche per quella sua idea – tra le tante – ancora così elementare eppure ancora così fondamentale, luminosa, frugifera, secondo cui l'uomo deve ritrovare il respiro, quello del neonato che, ignaro di tutto, è in armonia col mondo. Inutile dire che il controllo della respirazione è alla base del canto; e che la ricerca di Stratos si soffermò a lungo sulle tecniche di emissione e respirazione orientali, ad esempio tibetane. Scendere nelle profondità di se stessi per recuperare ciò che sta sul fondo, e trovare così la sintonia con ciò che – apparentemente, solo apparentemente – sta all'esterno: anche questa è un'idea forte che domina il taoismo e le filosofie orientali, mentre in occidente arriva poco, echi nei presocratici, in Platone, in Hesse la volontà di affrontarla per davvero.
Una dimensione dove il gioco e la conoscenza, il riso e l'armonia, la corporalità e il pensiero (quello vero, distillato di corpo), l'ironia e la spontaneità, lo studio e la natura, la disciplina e la libertà non siano più in contraddizione (perché non lo sono), ma tutto insieme nella coralità di un essere che comunica mentre scende sempre di più dentro di sé. Perché capisce di non avere personalità, di non costituire un io, di essere solo una parte e per questo anche tutto. Allora la ricerca del rapporto e dello scambio diventa naturale necessità, come per l'interplay del jazz e del blues, generi che vivono dell'interazione tra musicisti, del loro essere armonia unica ed irripetibile in quel determinato momento, mentre suonano insieme, quando può crearsi quella che sembra quasi una magia, di capirsi, intendersi, seguirsi e lasciarsi, comunicare senza parole ma ad un altro livello, al di qua o al di là – non importa.

Riccardo Cavalli



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